Rabbia, aggressività, ira sono il prodotto di menti nevrotiche e infelici. A livello sociale portano ?a effetti drammatici. Il Dalai Lama spiega la via buddista alla pace mondiale

In quella fredda mattina del 10 dicembre 1989, il Dalai Lama pronunciava il suo discorso di accettazione del Premio Nobel per la Pace nel silenzio raccolto e rispettoso del Re Olaf di Norvegia e delle altre autorità presenti. Tutti ascoltavano le parole di “Kundun”: la Presenza, come i tibetani chiamano il Dalai Lama.

L’atmosfera era così intensa da far intuire che quell’uomo, allora quasi sconosciuto fuori dalla regione tibeto-himalayana, avesse imboccato una strada che lo avrebbe portato in breve tempo a divenire un’icona del pensiero contemporaneo e un testimone della nostra epoca. Ma di fronte a tante attenzioni, quel giorno e negli anni successivi, lui ha sempre risposto così: «Sono un semplice monaco buddhista proveniente dal Tibet che segue con profonda convinzione un modo di vita spirituale: il nobile sentiero del Buddha la cui essenza è l’unione della saggezza e della compassione universale».

Ecco, la Compassione Universale. Questa è la chiave di volta per comprendere il cuore del messaggio del Dalai Lama. Non si tratta però di una compassione leziosa, di un facile e generico pietismo. Né è una dichiarazione di intenti idealistica e astratta. La compassione di cui parla questo “semplice monaco buddista” è invece una reale attitudine che può e deve essere in grado di orientare l’intera esistenza dell’essere umano. Una disposizione che si nutre di stati mentali, raggiunti principalmente attraverso la pratica della meditazione, in cui le tensioni interiori sono placate, la mente è calma e si è raggiunta una duratura serenità interiore. Qualità che ci aiuteranno sempre ma che si riveleranno indispensabili soprattutto nei momenti più difficili della nostra esistenza.

«La compassione, per come la intendo e per come la intende il Buddismo, non è un sentimento astratto ma una dimensione della mente», spiega oggi il Dalai Lama a “l’Espresso”. «È una concreta, positiva disposizione dell’essere umano nei confronti di tutti i suoi simili e di questo piccolo pianeta che è l’unica casa che possiamo abitare. E si basa su di un effettivo e onnipervadente senso di responsabilità universale». Infatti nel pensiero del Dalai Lama, così come in quello dell’intero Buddismo, non c’è spazio per divagazioni teoriche o idealismi di maniera. Al contrario, l’accento è posto sulla condizione umana, con i suoi limiti e le sue potenzialità. Quindi la saggezza e la conoscenza devono entrare in un rapporto dinamico con la realtà della vita per migliorare l’esistenza dei singoli e dei loro contesti sociali. E la pratica della compassione è lo strumento principe per attuare questo miglioramento.

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«Penso che l’ira, l’aggressività, la rabbia, siano il prodotto di una mente nevrotica, infelice. Sentimenti negativi che a livello individuale ostacolano la crescita interiore dell’individuo e a livello sociale sono sempre forieri di sviluppi negativi e drammatici», aggiunge. Quindi il modo migliore per contenerli e modificarli positivamente presuppone lo sviluppo di un forte, convinto, effettivo senso di compassione universale. Prendendoci una certa libertà di linguaggio, potremmo considerare l’idea di compassione espressa dal Dalai Lama come una sorta di alchimia interiore, un processo di “trasformazione” delle emozioni grossolane in un sentimento di vigile consapevolezza, di attenzione, di feconda apertura al mondo.

Certo, in un periodo storico difficile come l’attuale, può non essere semplice seguire questo monaco venuto dal Paese delle Nevi lungo un cammino che ha come bussola una tale concezione positiva del divenire, una tale caparbia volontà di credere che un cambiamento positivo sia sempre possibile. Anche quando ai più sembra impossibile. Eppure come non rimanere colpiti dalla ispirata ostinazione di quest’uomo? Un buon esempio dell’attitudine del Dalai Lama è la sua politica nei confronti della Cina Popolare che da oltre 60 anni occupa e governa con pugno di ferro il Tibet.

Nonostante le algide chiusure delle varie dirigenze che negli ultimi decenni si sono avvicendate a Pechino, il Dalai Lama continua a cercare un accordo vantaggioso sia per i tibetani sia per i cinesi. Accordo basato sul dialogo, sulla ragione, sulla reciproca disponibilità. Molti osservatori non mancano di ricordargli come questa politica non abbia dato alcun tangibile risultato; ma il Dalai Lama risponde facendo notare che, se non nei palazzi del potere di Zhongnanhai, nella società civile cinese qualcosa e qualcuno si sta muovendo. Intellettuali, giovani, perfino gente comune iniziano per la prima volta, a guardare con interesse al Buddismo del Tibet e a rivedere criticamente la politica dei loro governi sul Tetto del Mondo: «Se guardiamo il problema tibetano in una prospettiva più ampia, possiamo vedere come una grande speranza ci venga proprio dal popolo cinese”.

Si sarebbe tentati di parlare di una “Politica della Compassione”, una via al cambiamento basata sull’altruismo e un autentico senso di responsabilità verso il prossimo. Un “abbraccio con il mondo” in grado di superare i limiti dell’egoismo e di una visione angusta, per dar vita ad un differente modo di essere e di concepire i rapporti tra le persone, i popoli e le nazioni. Ma attenzione: «Non dobbiamo confondere la compassione con un sentimento amorevole basato sull’attaccamento e sul senso di possesso. Al contrario l’autentica compassione è un sentimento onnicomprensivo che si estende a tutti: agli amici come ai nemici. A chi ci ama e a chi ci detesta», ci spiega ancora il Dalai Lama. Una attitudine non selettiva quindi, capace di non discriminare tra coloro che ci sono più affini e gli “altri”, che riesca ad andare all’essenza di questo sentimento e non si basi sul senso del “mio” ma sia in grado di stabilire un rapporto empatico con l’essere umano in quanto tale (e nella sua declinazione più rigorosamente buddista anche con ogni altro essere senziente, mondo animale e vegetale inclusi), senza tener conto dei suoi pregi o dei suoi difetti.

Il Dalai Lama ricorda anche come l’idea della compassione e della sua capacità di cambiare le persone e l’ambiente in cui vivono, poggi sulla fondamentale constatazione che siamo tutti uguali. Non solo davanti alla legge ma anche e soprattutto perché vogliamo tutti raggiungere la felicità ed evitare la sofferenza: dal più grande filosofo all’ultimo degli analfabeti, dal più imponente degli animali al più infinitesimale degli insetti. La consapevolezza di questa dimensione in cui tutti siamo così profondamente uniti, può condurci a provare un senso di amore, di affetto, di solidarietà gli uni verso gli altri. Del resto l’origine etimologica del termine compassione è proprio quello di “partecipare alle sofferenze altrui”.

Nell’orizzonte spirituale, etico, morale di Kundun non si dovrebbe mai prescindere dalla presa di coscienza che abitiamo tutti nella medesima casa, navighiamo tutti sulla medesima barca, abitiamo tutti il medesimo pianeta Terra. L’intera umanità è interdipendente e la compassione intesa nel senso più ampio, potente e universale del termine, è l’unico vero antidoto alle emozioni distruttive che pure sono presenti nei cuori e nelle menti degli uomini e, se non efficacemente contrastate, rischiano di trascinarci tutti in una rovinosa caduta collettiva.

Essendo questi i fondamenti della sua visione, non stupisce che sempre più spesso il Dalai Lama ami concludere i suoi insegnamenti citando un verso del grande filosofo buddista Shantideva che “Kundun” ci regala in chiusura di conversazione: «Fino a quando esisterà lo spazio,fino a quando esisteranno gli esseri senzienti, fino ad allora, anche io rimarrò, e disperderò le sofferenze del mondo». E questa è la Compassione.