Per contrastare i semi dell'odio che invadono un'Europa debole con i razzisti e impotente con i dittatori è necessario coltivare il laicismo. Unica arma contro i talebani di ogni credo
«Questa conversazione è dedicata a
Razan Zaitouneh», dice
Emma Bonino, prima che venga aperto il taccuino e messo in moto il registratore. “L’Espresso” ha chiesto all’ex ministro degli Esteri, ex commissario dell’Unione europea, veterana di ogni lotta contro il fanatismo e per i diritti umani e civili, un parere sull’intolleranza, uno stato d’animo che si sta impadronendo del mondo. Ma lei, che per quattro anni ha vissuto al Cairo dove era andata per imparare l’arabo e per capire il mondo al Sud e all’Est del Mediterraneo, ha acconsentito a rispondere alle domande a patto che questo testo cominci con l’avvocato Zaitouneh, appunto: «Perché l’intolleranza spesso sfocia nella violenza e in crimini inenarrabili».
L’avvocato Zaitouneh, dunque, una donna siriana 37enne, fin dal 2001 ha prestato il suo tempo e impegno a difesa dei detenuti per motivi politici nelle carceri di Bashar el Assad. Nel 2011, appena scoppiata la rivolta contro il regime, ha messo in piedi un centro di documentazione dei crimini perpetrati dalle truppe governative: pensava di poter raccogliere prove per portare il dittatore davanti a un tribunale internazionale, e per questo ha collaborato pure con l’associazione Non c’è Pace senza Giustizia. Successivamente la sua attività si è allargata alla raccolta di testimonianze sulle malefatte delle milizie islamiste. Oltre un anno fa, un gruppo di uomini armati ha fatto irruzione nella sede del centro di documentazione, a Duma, a pochi chilometri da Damasco e ha sequestrato Zaitouneh e tre suoi colleghi.
Emma Bonino, cos’è l’intolleranza?«Il filosofo Karl Popper diceva che l’intollerante è colui che sa riconoscere i tabù della propria tribù come assoluti, ma non ha ancora scoperto che altre tribù hanno altri tabù. Questa definizione mette insieme tribù e tabù e quindi l’incapacità di accettare l’Altro. L’esercizio dell’intolleranza può assumere forme così estreme da risultare abbagliante, così abbagliante da accecare la vista».
Lo storico tedesco Wolfgang Benz scrisse che l’Olocausto è come il sole, non può essere guardato frontalmente, pena la perdita della vista... «Ma prima di arrivare a quello stadio c’è tutta una serie di fatti di intolleranza che Hannah Arendt ha descritto nella “Banalità del Male”: piccoli gesti, che presi singolarmente non spaventano, ma messi insieme fanno vedere come l’intolleranza cresce, monta, fino allo sbocco tragico e catastrofico. Ma allora è già troppo tardi. Oggi, passa la tesi che l’intolleranza riguardi soprattutto la famiglia musulmana: è lì che è praticata con crudeltà inaudita. Ma anche in Italia ci sono fenomeni che mi preoccupano. Ho paura che stiamo imboccando una strada che ci fa scivolare verso il precipizio. Sto parlando dell’incitamento all’odio nei confronti dei rom. Ma anche di chi dice: i profughi non li vogliamo qui, non da noi. C’è un razzismo strisciante in tutta l’Europa. Il razzismo ormai è palese ed è diventato legittimo come lo è stato l’antisemitismo prima di Auschwitz. Basta sostituire la parola ebreo con la parola rom».
E qual è la conseguenza? «Che li rinchiudiamo nei campi violando leggi e direttive europee e persino speculando sull’assistenza. Sono, certo, diversi dai campi di concentramento, ma non è difficile immaginare quanto tutto questo possa finire male».
Parliamo della tribù musulmana. Perché nel mondo islamico gli intolleranti sono così forti?«Perché è subentrato, a un certo punto, uno scontro di potere ideologico all’interno della famiglia sunnita. È una guerra per l’egemonia tra due gruppi: i fratelli musulmani da un lato e i salafiti dall’altro. Anche se il fondamento islamico e coranico conta: non dimentichiamo l’odio tra sunniti e sciiti».
Quanto conta invece la questione dei diritti delle donne nell’Islam?«Molto, perché è emblematica, in negativo. Nella visione dei conservatori l’emancipazione delle donne è destabilizzante. Però non scordiamoci che il tabù del corpo delle donne è antico quanto l’umanità e attraversa tutte le religioni monoteistiche».
La guerra oggi si combatte sul corpo delle donne?«È sempre stato così. Si vuole controllare la sessualità delle donne perché è pericolosa e sovversiva».
Agli ebrei pii è vietato ascoltare il canto delle donne perché fa venire pensieri impuri.«I talebani, nel primo periodo avevano vietato calzini bianchi, considerati erotici».
Anche in Occidente a molti maschi risulta disturbante vedere un gruppo di sole donne che ridono, parlano di sesso. Qual è la differenza tra questo disagio e la prassi di imporre il burqa?«Premesso che in Occidente, e in tutto il mondo, i maschi continuano a uccidere le femmine, la differenza sta nel fatto culturale. In Occidente abbiamo imparato parzialmente a governare le diversità e noi stessi. La differenza femminile però è una conquista delle donne. I maschi sono stati costretti a subirla. Detto questo, anche nel mondo islamico ci sono sempre state differenze e contaminazioni. Basti pensare al presidente tunisino Bourghiba e ad Ataturk, pur sapendo che non erano dei democratici».
Forse si può pensare anche all’egiziano Nasser. C’è un filmato in Rete in cui Nasser racconta, alla fine degli anni Cinquanta, di come i Fratelli musulmani gli avessero chiesto nel 1953 di fare una legge che obbligasse le donne a mettere il velo. E il pubblico che lo ascolta ride. Oltre cinquant’anni fa, mettere il velo alle donne, almeno in città, sembrava ridicolo. Cosa è cambiato?«Credo che siano intervenuti fattori esterni. In molti Paesi la questione del velo non è religiosa, è identitaria. Si tratta di contrapporsi all’Occidente. Ma vorrei introdurre un discorso che mi sembra importante. Ci sono molti laici nel mondo musulmano; gente che considera la religione un fatto privato. Sono loro i portatori di ogni discorso di tolleranza. Non vorrei che credessimo sul serio che pace e tolleranza siano prodotti occidentali d’esportazione. Pace e tolleranza non sono un evento, sono un processo».
Si spieghi.«Mentre va di moda il dialogo interreligioso, vorrei invece avviare il dialogo interlaico. Sono sicura che molti laici del mondo musulmano sarebbero d’accordo con me».
Parlava del velo come elemento d’identità e non solo religioso. L’invenzione dell’identità deve portare sempre ad escludere l’Altro?«Sì, se non ci sono anticorpi. E l’anticorpo - cioè il musulmano laico - c’è, ovunque. Sono prima di tutto le donne, anche con velo. Ma maschi o donne, tutti sono impauriti. E vorrei chiarire: per me il velo non è uno scandalo, proibirei solo il burqa, perché cancella il volto e quindi la persona. Comunque di mancanza di anticorpi soffre pure l’Italia».
Parliamo allora dell’intolleranza a casa nostra.«In parte è dovuta al disagio sociale. Ma il problema è che la classe politica non risponde con la fermezza dovuta. Intendo anche la fermezza culturale. Anzi, di fronte al razzismo la classe politica manifesta una certa timidezza. Mi dicono: opporsi ai discorsi razzisti è impopolare. E allora rispondo: i cattivi esistono però perché i buoni tacciono. Voglio dire, spesso la risposta ai razzisti è altrettanto razzista, ma solo un po’ più educata. E del resto, la maggioranza dei politici non riesce a dire che da qui al 2050 servono in Europa circa 50 milioni di nuovi immigrati. Una verità così evidente è un tabù. Siamo sempre più assorbiti del presente, della crisi economica. Se si guardasse l’Europa da Marte si direbbe che si tratta della zona più ricca e più istruita e acculturata del pianeta Terra. Quindi si potrebbe pensare all’avvenire, si potrebbero fare progetti immaginifici e audaci. E invece anche le riunioni del Consiglio dell’Unione europea assomigliano a quelle del board di una banca. La classe dirigente, i politici, i media, i princìpi li evocano non perché siano princìpio di vita e azioni, ma solo a condizione che stiano lassù, in una specie di Pantheon».
Questo essere schiacciati sul presente contabile genera intolleranza?«La tollera, la usa per scopi elettorali. Non ci ci si rende conto che i discorsi razzisti sono come la gramigna, fanno presto a mettere radici. Estirparli è un processo lungo e faticoso».
Lei è stata ministro degli Esteri e si è sempre occupata di questioni internazionali, come testimonia la dedica che ha posto all’inizio di questa conversazione. E allora, cosa fare con gli intolleranti, i dittatori che commettono genocidi? È stato giusto non intervenire in Siria?«Gli occidentali a fare le guerre sono ancora bravissimi. Si sa bene come si uccidono i dittatori. Il problema è che non si sa cosa fare dopo. E non lo si sa per due motivi. Il primo: perché spesso facciamo le guerre nei Paesi che ci rifiutiamo di conoscere. E basti pensare cosa è successo in Iraq dopo la deposizione di Saddam Hussein. E in secondo luogo perché ricorrere a un intervento armato è diventato un riflesso automatico. Spesso non si prova neanche a cercare un’altra strada. Basta ricordare la proposta fattibile che Marco Pannela e i radicali lanciarono e perseguirono con il progetto dell’esilio forzato per Saddam Hussein. E poi, spesso si scambia la nozione di intervento umanitario per intervento di cambio di regime».
Non ha risposto: era giusto non intervenire in Siria?«Rispondo partendo dalla mia esperienza in Egitto. Sono stata quattro anni al Cairo: dicevo a tutti che la situazione sotto Mubarak era insostenibile. Ma nessuno mi prendeva sul serio. Poi scoppiarono quelle che abbiamo chiamato “primavere arabe” e tutti si sono sorpresi e spaventati. Ma quali primavere? Lì ci vorranno almeno vent’anni per avere la democrazia. E del resto, anche in Europa dell’Est ci sono voluti vent’anni per arrivare a uno stato di cose decente. E per quanto riguarda la Siria, forse si poteva intervenire nel 2011, non lo so. Del dossier Siria mi sono occupata più tardi. Ma il fatto è che nel frattempo i fondamentalisti islamisti si sono impadroniti di quella che era l’opposizione. Sono intervenute le monarchie del Golfo e l’Arabia Saudita. La loro tattica di guerra è inventarsi dei gruppi terroristici; così sono stati inventati i talebani nel 1997 (con la partecipazione del Pakistan). E così, dal 2006 esiste l’Isis. Nel 2013, quando ero ministro degli Esteri, la resistenza in Siria era ormai nelle mani di gente a cui non avrei dato non solo armi vere, ma neanche una fionda.