SPECIALE

Nicolai Lilin: "Non cediamo alla tentazione della vendetta"

di Nicolai Lilin   5 gennaio 2015

  • linkedintwitterfacebook
Nicolai Lilin

Lo scrittore di origine sovietica spiega che spesso confondiamo l'egoismo dei nostri rancori con il senso di giustizia. Una scorciatoia morale che descrive con un racconto che affonda le radici nella sua educazione siberiana

Nicolai Lilin
L’anno 1989 ha segnato la grande madre Russia con cambiamenti epocali. Tutto il paese con il fiato sospeso era incollato ai televisori osservando come crollava il muro di Berlino. I nuovi leader politici parlavano al popolo non più dalle tribune delle riunioni del Partito comunista ma rimanendo con i piedi sulla stessa terra dei normali cittadini. Alle nuove parole simbolo di quel periodo come glasnost e perestroika, se n’è aggiunta una nuova: “sblijenie”, ovvero l’avvicinamento, il nuovo corso dei rapporti con l’Occidente messo in pratica dal presidente Gorbaciov. Il gruppo rock tedesco “Scorpions” cantava “The wind of change” parlando proprio di quello che noi vivevamo nell’Unione sovietica e a distanza di anni sento le immagini scorrere nella memoria seguendo la melodia di quel brano.

Speciale
Umberto Veronesi: "La speranza è essenziale per vivere"
5/1/2015
Ma nella mia vita di bambino, il 1989 è stato segnato da due eventi che hanno condizionato la mia esistenza: la nascita del mio adorato fratello Dimitri e l’entrata nella mia collezione di un pezzo importantissimo, una Luger P08 prodotta nel lontano 1917. Nelle strade del mio quartiere, tra i ragazzini giravano molte armi da fuoco, soprattutto modelli storici tirati fuori dai nascondigli dei nonni: venivano barattate in cambio di colombi, cuccioli di cane o qualche piccolo oggetto di gioielleria sottratto ai genitori. A nove anni possedevo una discreta collezione di pistole. Avevo due rivoltelle tipo Nagant, di cui una rarissima di produzione svedese dalle munizioni introvabili; una Mauser C96 - quella che usa Corto Maltese nei fumetti di Hugo Pratt - che non funzionava per qualche guasto meccanico mai scoperto; diverse Tokarev, una delle quali recuperata sul terreno di una battaglia della seconda guerra mondiale e semicorrosa dalla ruggine. C’era pure una Walther P38 tedesca, con il nome del militare che l’aveva usata durante il conflitto inciso sul carrello.

Speciale
De Cataldo: "Giustizia, un'utopia da difendere"
2/1/2015
Per avere la Luger e una scorta di proiettili originali ho dato quattro colombi della pregiata razza di Bacu, allevati da mio nonno. E quando l’ho impugnata, ho capito subito che quella era la mia arma. Sembrava la mia continuazione naturale, la parte mancante che si era finalmente conciliata con il resto del corpo. Provavo un sentimento grottesco ma profondo, paragonabile solo all’amore per una donna. Uno stato di beatitudine febbrile, quando si vive il continuo e costante godimento avvolto da un sottile e all’inizio quasi trasparente velo di preoccupazione, che però diventa sempre più presente giorno dopo giorno, finché non realizzi che ti svegli di notte per assicurarti che il tuo amore è sempre vicino a te, nel mio caso addirittura sotto il cuscino.

Di giorno portavo la pistola ovunque: a scuola e persino al fiume, il luogo dei nostri giochi. La sera, prima di andare a dormire, la smontavo e pulivo con cura, accarezzando la struttura metallica con il panno bagnato d’olio. Con quella Luger riuscivo a sparare molto preciso. Era facile da controllare, un vantaggio perché io ero più piccolo e più magro dei miei amici e quindi faticavo a colpire i bersagli con le altre pistole. Ora invece era tutto cambiato: staccavo il collo delle bottiglie a dieci metri di distanza. Anche i ragazzi più grandi avevano notato la mia abilità, alcuni autorevoli delinquentelli del quartiere si erano complimentati e ciò rappresentava una sorta di promozione nella gerarchia della strada. Credevo di essere diventato qualcuno grazie a quel pezzo di ferro. Non mi rendevo conto che gli amici mi consideravano insopportabile, perché sembravo ubriaco di onnipotenza e facevo di tutto per provocare il destino. E il destino non si è fatto attendere.

Un paio di volte a settimana, mia madre e mia nonna stendevano lenzuola e coperte all’aperto e facevano pulizia: sbattevano i tappeti e mettevano i cuscini sulle panche del cortile per far prendere aria alle piume dell’imbottitura. Il nostro vicino, un uomo anziano che tutti noi chiamavamo “Nonno Bianco” aveva un cane, una bestia enorme di razza non identificata. Gli aveva dato come nome Buyan (dal russo “buyanit”, che significa comportarsi in modo aggressivo), scelta che ne rispecchiava il carattere. Buyan viveva rinchiuso in un minuscolo spazio circondato da una rete metallica. Ma quando si infuriava, riusciva a saltare la rete e si lanciava nel nostro cortile, inseguendo gatti e galline. Di solito mio padre o mio zio lo catturavano e riconsegnavano al suo padrone, che offriva sempre un risarcimento per i danni. Ma un giorno mi sono sentito abbastanza spavaldo da cambiare questa consuetudine.

Ero da poco tornato da scuola e sono andato nel fondo del giardino per tirare due colpi con la mia Luger. Tra uno sparo e l’altro sono stato distratto dalla sarabanda che proveniva dal cortile. Era un misto tra il lamento di un bambino, il ruggito di un leone, il bramito di orso e il ringhio del cane. Un verso incredibilmente lungo e potente, tanto da apparire irreale. Sono corso verso casa e mi sono trovato davanti una scena incredibile: tutto era coperto di piume, con brandelli di cuscini che volavano in aria e in mezzo a questa nuvola bianca c’era Buyan che stava sbranando l’ultimo pezzo di stoffa. Ho guardato quel cane e dentro di me si è scatenata l’ira. Anche lui mi ha fissato, come per studiarmi, poi è scattato. Senza rendermene conto ho puntato la Luger e premuto il grilletto. L’animale nello stesso istante si è accasciato, come se un essere invisibile gli avesse inferto una botta sul capo. Mi sono avvicinato al corpo ancora caldo, sentivo le ginocchia tremare. Ho osservato immobile quello che avevo provocato, poi ho messo la sicura alla Luger, ma non ho fatto in tempo a infilarla in tasca perché è apparso mio nonno Boris. Teneva tra le mani uno dei giovani colombi che addestrava. Mi ha fissato con disapprovazione: «Perché hai sparato a quell’animale?»

Ho cercato le parole giuste, senza trovare niente di intelligente: «Nonno, è scappato di nuovo dal suo recinto». Lui ha scosso la testa: «E allora, vuoi dire che lo hai ammazzato soltanto perché si è liberato dalla prigionia?». E ha proseguito con tono di rimprovero: «Sai che sei nato nella famiglia dei criminali, Kolima? A tutti noi nella nostra vita è accaduto di venire privati della libertà e forse capiterà anche a te. Non discuto se è giusto o sbagliato privare un criminale della libertà, l’unica cosa che ti posso garantire è che stare in gabbia fa male. Quindi se un essere vivente, qualsiasi creatura di Dio fugge dalla gabbia, non c’è nessuna ragione di sparargli addosso. Chiunque può impazzire rinchiuso in un recinto».

Mentre lui parlava, io stavo cercando un modo di uscirne e improvvisamente si è accesa un’idea: ho vendicato i beni della nostra famiglia che il cane aveva distrutto! Si, questa è la spiegazione giusta: la vendetta! Non c’è il sentimento più nobile! Mi sono spinto in avanti e con grinta ho dichiarato: «Nonno, mi sono vendicato per la nostra famiglia!». Lui mi ha guardato con stupore e una sorta di pena: «Ragazzo, non pronunciare mai più la parola “vendetta” in mia presenza. Un criminale onesto non approva un sentimento così basso: viene dal diavolo e conduce le persone dritto all’Inferno. Quello che noi preferiamo alla vendetta si chiama giustizia, che riporta il mondo all’ordine naturale delle cose, che rispetta la dignità di ogni essere vivente e non distrugge l’equilibrio del mondo che ci circonda. Ora, pensaci, dove sta l’equilibrio tra la vita di una creatura di Dio e quattro cuscini che qualsiasi massaia è capace di cucire in mezz’ora? Lo spirito della vendetta nasce solo dalla nostra debolezza e dal nostro egoismo».

Sono diventato di nuovo piccolo e insignificante. Le parole del nonno erano come l’acqua fredda del fiume che aveva lavato via ogni mia superbia. Ha puntato l’indice sul manico della pistola che spuntava dalla tasca: «Sei tu che possiedi l’arma, non il contrario. Finche non lo imparerai, non diventerai uomo». Siamo rimasti qualche momento in silenzio. Poi ha indicato il vecchio carrello da muratore: «Metti il cane lì dentro e portalo al suo padrone. Racconta quello che è successo e chiedi scusa. Per ricompensarlo, gli darai la tua Luger: lui sarà felice». Ho eseguito gli ordini con l’aria da funerale, fermandomi a ogni passo e accarezzando la pistola che stavo per perdere. Ma le parole del nonno risuonavano nella mia testa e mi sono convinto che diventare un vero uomo era più importante di qualsiasi pistola, anche la più bella al mondo