Un nuovo album appena uscito, una tournée d'autunno e un film in cantiere per quello che è stato definito il "Miles Davis italiano". Che coltiva una passione profonda per la letteratura. Così la racconta in questo colloquio con "l'Espresso"

Enrico Rava
Ancora oggi Enrico Rava, lunghi capelli argentei, è un ragazzo globetrotter, lui e la sua amata tromba Bach. Da metà ottobre il padre e guru del nuovo jazz italiano (76 anni, e non ci crede nessuno) suonerà a Tokyo, Fukuoka, Giacarta, in Germania, in Polonia, a Copenhagen, Nevers, Verona, Milano, Bordeaux: sia col suo New Quartet, sia col duo Soupstar di Gianluca Petrella, trombone, e Giovanni Guidi, piano. Intanto è uscito l’ultimo album: Enrico Rava Quartet, “Wild Dance” (Ecm). E a novembre sarà pronto il film di Monica Affatato su di lui, “Enrico Rava. Note necessarie”, 93 minuti, prodotto da Cinefonie-Pierrot e La Rosa. La regista lo ha seguito per anni, in privato e in concerto.

Rava, sempre nella Top five mondiale dei trombettisti, definito dalla stampa anglosassone «il Miles Davis italiano», tuttora si circonda di musicisti ben più giovani, da lui scoperti e promossi: Petrella, i batteristi Roberto Gatto e Enrico Morello, il chitarrista Francesco Diodati, il pianista Stefano Bollani che pure ha una sua carriera ipermediatica. Un sapiente ha scritto che Miles Davis, nel suo capolavoro “So What”, sembra passeggiare in una stanza perfetta. Ma la stanza di Rava è il mondo (per dire: il ’68 lo fece a Manhattan con Steve Lacy e i pazzi del free jazz) e a tenergli compagnia non è solo la musica. Tema di quest’intervista con “l’Espresso”.

Parliamo di letteratura americana?
Da ragazzo sono cresciuto con Faulkner e Steinbeck. Ma soprattutto con Scott Fitzgerald, di cui mi pare di saper quasi tutto. Sono un fan assoluto. “Il grande Gatsby” l’avrò letto quattro volte. Amo come scrive, i dialoghi, i rapporti tra i personaggi, il clima anni Venti, anche se il jazz, con Fitzgerald, c’entra poco. Un altro che ha viaggiato molto con me è “Moby Dick”.

Libro faticoso.
L’ho letto prima saltando dei pezzi: i capitoli sulle balene, due palle mostruose; poi li leggevo la volta dopo. Adoro Melville benché abbia riserve sulla traduzione Einaudi di Cesare Pavese, che ritengo immatura, debole sull’americano. Al contrario di Beppe Fenoglio, che lo parlava bene, e si sente. Di Fenoglio mi piacciono, più che “Il partigiano Johnny”, postumo, i racconti: “Un giorno di fuoco”, “Una questione privata”. Straordinari.

E venendo in qua?
Raymond Carver. John Fante; ho anche conosciuto suo figlio Dan. Il mio album “Full of Life” con Javier Girotto è un titolo di John. Ho amato Charles Bukowski. Una scoperta più recente è Richard Yates, quello di “Revolutionary Road”, da cui hanno tratto un buon film. Fantastico, Yates.

Narratori della realtà e dell’interazione psicologica.
Sì. Quando sono stanco, invece, mi bastano i bei plot, e pazienza se il livello letterario cala: James Patterson, John Grisham. Ken Follett l’ho snobbato per anni, poi la trilogia “The Century” mi ha appassionato.

Quando legge, la notte?
Anche. Dipende. La mattina presto studio sempre due ore. Sono allodola, non gufo. Per me l’esercizio mattutino è cruciale. Specie se la sera ho concerto; se non faccio esercizio appena sveglio, la sera magari suono di merda.

Alla sua età ha ancora insoddisfazioni post concerto?
Come no. Se ho suonato male, non riesco a prender sonno, ci ripenso per ore. Ogni volta è un terno al lotto.

È vera la leggenda: Rava ha letto più volte l’intera “Recherche” di Proust?
Sì. Almeno quattro volte. Tutta. Sapevo brani e brani a memoria. L’ho scoperto a 17 anni. All’inizio faticavo ad arrivare a pagina 80. Poi, una volta, sono partito e non ho più smesso. Madame Verdurin, Bloch, il barone Charlus son diventati parte della mia vita.

Proust e il jazz: centralità della memoria e tecnica dell’improvvisazione?
L’unico vero scrittore jazz è Proust.

Spieghiamo?
Proust parte dal singolo ricordo di un oggetto e va a finire ovunque, malattia, amore, desiderio, rimorso. Frammenti e improvvisazioni. Anche se improvvisazione è sempre un termine improprio. Il jazz ha un vocabolario, una grammatica. Le frasi che diciamo, suonando, le abbiamo già dette prima e proviamo a ridirle in altri modi.

Quali scrittori c’entrano col jazz?
Pochi. E quelli che sembrano più vicini lo sono di meno. La Beat Generation, Kerouac, Ginsberg: non vedo in loro la “scrittura jazz”. Erano interessati all’ambiente del jazz, il fumo, le droghe, le donne, la notte. Non alla musica. Kerouac è uno che confonde sassofono e vibrafono. Tremendo.

Errore che Cortázar mai avrebbe fatto.
Mai! Julio Cortázar era un cultore. Il suo sassofonista El Perseguidor, si sa, è Charlie Parker. Quando nel “Giro del giorno” descrive un concerto di Thelonious Monk a Londra è incredibile, come esser lì con loro. Monk era pazzesco, un orso buono che cammina su un campo minato. L’ho conosciuto in Italia, quando suonavo con Steve Lacy. Ci fu un concerto di Monk a Lecco...

Monk a Lecco: pare uno scherzo.
Ah, ah, ah. Tutto vero. La sera tardi, con Steve, lo portammo in un bar di Milano. Lui e Monk, ogni due parole, «Cognac!». Io un po’ meno. Quando Monk è uscito per andare in albergo, Steve è crollato a terra di botto, bam! Come in “Round Midnight”. Abbiamo dovuto rianimarlo, io e la sua compagna: Questo ci muore! Invece bene.

Non sempre gli scrittori sanno di musica.
Uno che sa è Thomas Mann. Nel “Doctor Faustus” descrive così bene il maestro Kretzschmar al piano, con la sonata Op. 111 di Beethoven, che quando me la son comprata già la sapevo. Con Misha Mengelberg (il compositore olandese, ndr) ci venne l’idea: fingiamo di aver ritrovato noi in Toscana gli spartiti originali di Adrian Leverkühn, il protagonista del “Faustus”, e li trascriviamo... Audace, lo ammetto. Rimase un’idea.

La sua passione per i sudamericani?
Cortázar. David Viñas. Borges. I narratori del fantastico, originali, strani. Borges andava in un certo hotel a Buenos Aires, e io passavo per la hall apposta per vedere se lo beccavo....

Anche Céline è un suo scrittore di culto.
Totalmente. “Viaggio al termine della notte” è magnifico, grandissimo.

La cultura di sinistra, in Italia, lo ha marchiato a lungo come autore fascista, capendoci poco. Non crede?
Ma certo. Mai fregato nulla del fascismo in Céline. Gli anni Settanta in Italia erano così. Si identificava il free con un’idea rivoluzionaria, mentre il jazz ortodosso era bollato come espressione della destra americana. A Umbria Jazz si impediva a certi artisti di salire sul palco. Attaccavano Chet Baker come bianco sfruttatore dei neri. Gli espropri proletari, poi! Altro che fantasia: era l’idiozia al potere.

Nel ’96 lei incise “Rava Noir”, e Altan disegnò una stupenda storia con lei protagonista. Siete ancora amici?
Sì. Conobbi Altan prima che fosse Altan, quando andava in spedizione nella giungla brasiliana. Eravamo un giro di amici alle Cinque Terre, gente di cinema, Gianni Amico, Enzo Ungari, Bernardo e Giuseppe Bertolucci...

Lei ha vissuto per anni da jazzista puro. Poi ha incrociato altri generi: Puccini, “Carmen”, Morricone, Bruno Martino, il Brasile, Michael Jackson. Come sceglie queste fonti d’ispirazione?
Nel caso di Jackson e dell’opera, è perché mia moglie Lidia ha 22 anni meno di me. A me dell’opera importava poco, e Michael lo ricordavo bambino nei Jackson Five. Ma Lidia mi ha trasmesso certe sue passioni, e così mi sono venuti quei trip...

Sarebbe un’altra intervista.
Un’altra volta, sì.