Con la scrittrice sarda parliamo del suo nuovo romanzo. Una conversazione sul ruolo dei maestri, sulle donne e sul potere «che è anche nelle relazioni più private». Parliamo delle bombe partite da Cagliari verso il Medio Oriente in fiamme, di Renzi e di Albus Silente. E della Svezia, da cui dovremmo imparare
Il nuovo romanzo di Michela Murgia, Chirú (Einaudi, pp.200, euro 18,50) è un libro che profuma di lavanda, e il perché lo capirete leggendolo. È la storia di un rapporto elettivo. Il rapporto «pericoloso» e di formazione tra Eleonora, attrice sulla soglia dei 40 anni, donna più che compiuta, e Chirú, che di anni ne ha 18 ed è ancora acerbo. Ma con Michela Murgia decidiamo subito che Chirù è un romanzo politico, «il più politico che io abbia mai scritto», mi dice.
Le faccio notare che anche Accabadora (premio Campiello nel 2010) era molto politico, così dirompente in un Paese che non ha ancora una legge sul fine vita e l’eutanasia, e lei mi dice che la sua intenzione in quel caso non era quella: «Ho iniziato a scrivere Accabadora che il caso di Eluana Englaro non era neanche all’orizzonte», ricorda, «ho sempre negato il legame e lo continuo a fare, perché quel libro lì voleva solo raccontare una cultura, ormai spesso lontana, che si prende cura del singolo, della sua vita dall’inizio alla fine, e che lo fa in un modo che non è paragonabile a quello di oggi. Un’accabadora della Sardegna degli anni ‘40 non è un medico del 2015».
Chirú, invece è un romanzo romantico, una finestra sulla vita, ma è politico, sì, e forse proprio per questo. «Proprio ieri», mi racconta Murgia «mi hanno detto “con questo romanzo ti allontani dalla politica”». Lo dicono perché concentrati sui destini di Eleonora e Chirú, sulla storia, le dico io. «Ma invece si sbagliano», mi conferma, «è proprio il contrario. Il libro ha due fortissimi temi politici, e mi fa piacere parlarne». «Il primo, che innerva ogni pagina, è quello del potere. Tutte le lezioni del libro sono su come si riconosce, come si esprime e come si governa il potere. Che è un potere poco riconoscibile, mi rendo conto, perché noi parliamo sempre dei poteri forti e raramente dei poteri deboli che appartengono a tutti e non ad alcuni, e che sono quelli delle relazioni».
La relazione tra Eleonora e Chirú, tra maestra e allievo, è una relazione di potere, così come potere sono le relazioni in una famiglia: «Le famiglie sono consigli di amministrazione, sono luoghi dove si decide dell’economia delle vite. Possono essere protettive o patogene, come sa chiunque sia andato anche solo una volta dall’analista».
E poi c’è il secondo tema politico: la questione di genere. «C’è molta letteratura e molto cinema che ha costruito l’immaginario del maestro, dell’esempio, che è però sempre maschile, da Pigmalione a Albus Silente, fino al maestro Yoda». «Sono poche le maestre», continua Murgia, «che è anzi una parola che evoca subito scuole elementari, grembiuli e fiocchi al collo e porta spesso al termine maestrina, che è proprio l’usurpazione di un ruolo maschile». La storia di Eleonora e Chirú è invece la storia tra una maestra, una donna, e un allievo, un giovane uomo.
Quello di Murgia non è quindi solo un romanzo, abbiamo deciso. Non lo è stato per me, e perdonerete il protagonismo. Non mi capita spesso di fare le orecchie alle pagine di un romanzo, e invece Chirú l’ho riempito di pieghe. Una delle orecchie rimanda a un dialogo tra il direttore dell’Opera di Stoccolma e Eleonora, la maestra di Chirú, partita per una tournée.
«C'è chi pensa che ci siano cose peggiori della mediocrità, Eleonora. Il prezzo dell'eccellenza è il dislivello sociale e qui, lo avrà notato, la disuguaglianza è il diavolo. Se si brilla è solo tutti insieme, e questo è un principio che si impara dalla nascita. Nella scuola d'infanzia non si creano mai le condizioni perché qualcuno possa alzare la mano e mostrare quanti dei suoi compagni non sanno la risposta giusta. Se l'immagina una classe di bambini cresciuti fuori dalle logiche della competizione?». «A stento. Eppure ho avuto l'impressione che eccellere qui fosse alla portata di chiunque». «Perché è il sistema a essere eccellente, non il singolo. Se sei il solo a brillare non sei un'eccellenza, sei un'eccezione».
Non c’è molto da aggiungere quanto a manifesto politico. «Invito ad aprire gli occhi su una realtà che consideriamo vicina ma che è invece è opposta. Lì nessuno ce la fa “nonostante” il sistema, ma in molti ce la fanno “grazie al sistema», mi dice Murgia. Che ringrazio. «È curioso», dice Murgia, «che qui in Italia si parli così spesso di questa o quella eccellenza senza notare mai che non siano eccellenze ma - appunto - eccezioni, e che la differenza è sostanziale».
Non è certo la Svezia, ma parlando di Chirú non si può poi non parlare di Sardegna, scenografia principale del libro. Come Accabadora, in questo caso. Cos’è, riconoscenza? «No», mi corregge Murgia, che è nata a Cabras, sul fronte sardo che non guarda l’Italia. «La Sardegna è semplicemente bella da raccontare, e qui convivono contraddizioni da cui non può che venire letteratura».
Ancora politica, e scusate: che ne è dell’impegno di Michela Murgia, candidata alle ultime regionali? «Continua il progetto a cui ho contribuito a dar vita», mi risponde, «ma ho sempre creduto che legare un percorso collettivo al carisma di un singolo fosse antitetico alla mia idea di potere. Dobbiamo trovare il modo di esser potenti insieme e siamo invece circondati da gente che vede tutto come uno scontro, l’uno contro l’altro». E chi avrà mai in mente, Murgia? «Lo stesso Renzi», continua, «quando dice cose tipo “li asfaltiamo”, offende me e ciò che dovrebbe essere il rapporto democratico».
A questo punto le chiedo se lei, come molti, fatichi a seguire la politica nazionale. «La politica nazionale per me è la politica sarda» è la risposta «per me conta quella e quella internazionale. Mi preoccupo, ad esempio, che la Sardegna sia condannata a essere non un’isola ma una portaerei ancorata nel Mediterraneo e che quando chiediamo al ministro Pinotti perché ci ritroviamo a produrre e esportare bombe nei teatri di guerra, e se quella è l’unica prospettiva per la Sardegna, lei ci risponde che va tutto bene».
Le chiedo allora se faccia fatica anche a leggere i giornali. «Fortunatamente posso seguire sui giornali stranieri ciò che conta nella mia prospettiva indipendentista, oltre la Sardegna: le questioni internazionali», mi risponde: «Dico fortunatamente perché i fatti di Parigi raccontanti da Le Monde sono diversi dagli stessi fatti raccontati dalla maggioranza dei giornali italiani».
«La sensazione generale», dice se ci soffermiamo un po’ sulla questione «è che in Italia buona parte dell’informazione pieghi le notizie come richiesto da una narrazione politica che esige determinati strumenti».
Provo a tornare un po’ sul libro. Che è nato senza che la storia avesse già una fine scritta, perché «non sempre c’è un momento in cui ti trovi davanti a una storia compiuta e inizi a scrivere». Per Chirú l’autrice è partita però da un punto, «non esiste», è la teoria di base, «la famiglia tradizionale. Non c’è niente di naturale nella famiglia. E così Chirú per esser visto per quello che è, ha bisogno che a guardarlo non sia qualcuno che abbia con lui un legame di sangue. Perché il legame di sangue è un’inquinante sociale». Chirú è un libro - bellissimo - sulla «filiazione d'anima, con tutto quello che comporta, anche nel rischio di manipolazione, che però c’è anche nelle famiglie».
Tra i molti lavori fatti da Michela Murgia (uno dei quali, la telefonista di un call center che deve piazzare il potente aspirapolvere Kirby, è diventato un romanzo,Il mondo deve sapere, e poi anche un film, Tutta la vita davanti di Virzì) c’è anche quello dell’insegnante. Insegnavi religione? «Ho insegnato per sei anni e ho fatto l’animatrice in oratorio per dodici», mi racconta. E un rapporto di formazione come quello che lega Chirú e Eleonora, così intimo, più artistico, l’hai avuto? Nei panni di mentore o di protégé ? «Mi sono trovata in entrambi i ruoli, e sono grata di aver avuto molte maestre».
Due i momenti salienti. «Il primo maestro è stato un uomo, non molto più vecchio di me ma più acuto, che mi ha rivelato che potevo scrivere quando io non avevo neanche un diario segreto, e mi ha fatto scoprire un talento che ora è il mio mestiere. La seconda è una maestra. L’incontro con Marinella Perroni e le teologhe italiane è stato per me fondamentale. Faccio parte di una generazione che non ha un retaggio femminista ma che ha sempre sentito la spinta e il vuoto. Ecco così il terzo tema del libro, l’eredità e cosa significhi insegnare».