La cosiddetta “scatola scema” è diventata intelligente, e produce serie complesse, spesso di grande valore artistico. Gli showrunner ne sono le nuove stelle. E la più brillante è quella dell'ideatrice di Grey's Anatomy, Scandal e il recente 'Le regole del delitto perfetto'
Ha 36 anni e nel suo curriculum, a parte l’avere scritto per il teatro quel “Farragut North” da cui poi George Clooney ha tratto il film “Le idi di marzo”, c’è poco. Ma se si pronuncia il nome “Beau Willimon” di fronte a qualunque executive della televisione, americana ?e non, che sia via etere o via cavo o via streaming, ci sarà attenzione immediata. Perché Willimon, assieme con
David Fincher, è quello che ha portato a Netflix l’idea di riadattare liberamente la serie britannica
“House of cards”.
Fincher poi ha continuato a dirigere film, l’ultimo ?dei quali è
“Gone Girl”, mentre Willimon è diventato quello che scrive, dà il tono, ?il ritmo e il sapore allo show. È lui, insomma, a decidere quando il Senatore Frank Underwood debba essere pronto a diventare vice presidente e poi a cominciare d’assalto la Casa Bianca. Lui a stabilire chi sale, chi scende e chi muore. Willimon è il genio creativo di “
House of Cards” e anche quello che fa marciare la produzione di uno show settimana dopo settimana e stagione dopo stagione: lo showrunner appunto.
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«Una figura non del tutto nuova, ma che nella nuova televisione sta diventando sempre più centrale», spiega lui all’Espresso.
Insomma: mentre negli Studios pensano che il cinema, oggi, debba limitarsi a offrire improbabili eroi da fumetto che assicurano lucrosi seguiti, la televisione è cambiata: la cosiddetta “scatola scema” è diventata intelligente, e produce serie complesse, spesso di grande valore artistico.
Gli showrunner ne sono le nuove stelle: autori come Ryan Murphy (“American Horror Story”), che ha introdotto l’idea della serie antologica come “True Detective” ?e “Fargo”.
Julian Fellowes, un Oscar per “Gosford Park” e creatore di “Downton Abbey”. Vince Gilligan, di “Breaking Bad”. Matthew Weiner, che viene dalla scuola de “I Soprano” e che con “Mad Men”, arrivato alla sua ultima stagione, per sette anni ha saputo generare nostalgia per i Cinquanta e fare un divo di Jon Hamm. Michelle Ashford, di “Masters of Sex”.
«Non sono certo io la prima a dire che la televisione ha preso il posto che un tempo era della letteratura», sostiene lei: «Oggi divoriamo serie come prima divoravamo i libri. Io, però, benché adori scrivere devo anche controllare tutti gli altri aspetti della produzione: senza questo lavoro non si conclude niente. Noi facciamo televisione, non sceneggiature».
Damon Lindelof, autore di serie come “Lost” e “The Leftovers”, ricorda ancora i tempi -non troppo lontani- in cui «eravamo poco di più un’ombra sul nostro computer». Ora i suoi giorni sono «allo stesso tempo pieni di paura ed eccitanti», passati a scrivere ma anche a stare al telefono con i produttori e a colazione con gli agenti degli attori, in sala di montaggio o accanto ai costumisti, oppure a lavorare sui budget.
E poi c’è
Shonda Rhimes, che il “New York Times” ha descritto come “una donna nera arrabbiata”. Arrabbiata per davvero, perché vuole venire vista soltanto come una showrunner, che per caso è anche donna e afro-americana. E che -non molto per caso- è la più potente di tutti, perché dopo
“Grey’s Anatomy” ha creato “Scandal”, melodramma ambientato alla Casa Bianca con Kerry Washington. Oggi Shonda Rhimes è anche ?la forza dietro “
How to get away with murder”, e suo è il giovedì sera sulla rete ABC, dove ogni settimana 37 milioni di telespettatori si sintonizzano sui suoi show. Il suo segreto? «Faccio serie ?che mi interessano su cose che mi interessano», dice all’Espresso. «Sulle relazioni umane». Sono relazioni spesso contorte, tra personaggi che -al contrario delle serie che hanno dominato il piccolo schermo per mezzo secolo- sono più che imperfetti e vivono in un mondo dove i confini tra bianco e nero e bene e male non sono mai molto chiari. Tipi come Tony Soprano, come Nucky Thompson ?di “Boardwalk Empire”, o come Walter White, il maestro di chimica che in “Breaking Bad” crea un impero della metanfetamina.
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«A Hollywood molti continuano a chiedere personaggi amabili», inteviene Willimon, «ma per me un personaggio attraente è un’altra cosa: non quello con cui vorresti andare al bar a farti una birra e a raccontargli la tua vita, ma quello che ti tiene incollato allo schermo. Magari lo condanni, ma finisci comunque per tifare per lui o per voler sapere che cos’altro combina». ?E negli altri Paesi? Ora che “House ?of Cards” è diventato un successo internazionale, è stato modificato qualcosa per andare incontro al pubblico straniero? «Siamo stati sorpresi dall’accoglienza avuta, ?ma il nostro modo di lavorare non è cambiato. Se ci mettessimo a seguire le news della giornata, resteremmo sempre indietro».