Novantadue miliardi in Europa. Migliaia di giorni di lavoro persi. Prezzi delle terapie in costante rialzo. Gli esperti hanno valutato l’impatto del male sulla società. E una strada per uscirne
Novantadue miliardi di euro persi in un anno, nella sola Europa. Ma in questo caso la crisi economica non c’entra, il nemico da battere è la depressione. E i suoi costi nascosti, fatti di ricoveri e terapie, ma soprattutto di assenza dal lavoro, sussidi, perdita di produttività. “Una crisi globale”, come l’ha definita l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan, convocato dal settimanale “The Economist” per un summit che nelle scorse settimane ha riunito a Londra leader politici, imprenditori, accademici e operatori sociali. Per fare il punto su quella che sembra una vera e propria emergenza. Che colpisce duro anche l’Italia: i dati appena diffusi dall’Aifa (Agenzia italiana per il farmaco) mostrano che il consumo di antidepressivi è una delle principali componenti della spesa farmaceutica, con un aumento del 4,5 per cento circa in dieci anni. Durante i primi 9 mesi del 2014, i nostri concittadini hanno acquistato più antidepressivi di quanto non abbiano fatto lo scorso anno.
D’altra parte, l’epidemia è globale. Secondo l’Ocse, per i paesi membri il costo dei disturbi mentali - tra cui la depressione è il più diffuso - può arrivare al 4 per cento del Pil. «Queste malattie favoriscono l’abbandono scolastico, possono raddoppiare o triplicare il rischio di disoccupazione e inducono a trascurare la salute in generale», ha osservato Sara Evans Lacko del Kings College di Londra.
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Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità la depressione è la principale causa di disabilità sul pianeta, più di cancro e malattie cardiovascolari. «Nel mondo le persone che ne soffrono sono più degli abitanti degli Stati Uniti, circa trecentocinquanta milioni. Trentatré milioni solo in Europa», ha ricordato il ministro della sanità inglese Norman Lamb. E secondo
lo studio ESEMeD (European Study of the Epidemiology of Mental Disorders), l’10, 1 per cento degli italiani soffre o ha sofferto di una depressione importante (il 15 per cento donne, l’8 uomini e l’8-10 adolescenti). Stando invece a quanto riportano i medici di medicina generale, i nostri connazionali che lamentano questa malattia sono 7,5 milioni.
E se parliamo di depressione, il problema maggiore non è il costo delle terapie, e neanche la difficoltà di individuare interventi opportuni. «Le competenze o gli strumenti terapeutici per affrontare la depressione non mancano», ha dichiarato Annan: «Quella che manca è la volontà di affrontare il problema, individuando strategie efficaci e condivise». Un vuoto che si declina in forme diverse. Nei paesi meno sviluppati, sono le emergenze da fronteggiare a mettere inevitabilmente in secondo piano la salute mentale. Mentre in Europa, e in generale nel mondo industrializzato, il problema è lo stigma sociale che colpisce chi ne soffre. «Dovremmo arrivare a trattare una mente spezzata come tratteremo una gamba rotta», ha affermato il ministro della sanità danese Nick Haekkerup, sostenuto dalle tante associazioni nate in Gran Bretagna proprio per combattere l’emarginazione di chi soffre di disturbi dell’umore o di altre malattie mentali. Come Time to change, l’iniziativa lanciata nel 2007 dalle onlus Mind e Rethink Mental Illness. Che ha reclutato Alastair Campbell, già portavoce di Tony Blair e oggi testimonial, da ex paziente, della campagna contro il tabu della malattia mentale. «È ora di liberarci di questo spauracchio, di affrontare la depressione come affrontiamo le malattie che colpiscono gli altri organi», ha dichiarato Campbell agli esperti riuniti dall’“Economist”: «In fin dei conti, tutti conosciamo qualcuno che ne soffre o ne ha sofferto».
CI RIMETTE IL LAVOROIl vero peso economico della depressione è rappresentato dai costi indiretti, di cui le imprese pubbliche e private sopportano una quota tra il 30 e il 50 per cento. E non solo perché la depressione è una malattia subdola, che può colpire in giovane età condizionando le scelte formative, e riproporsi in forma cronica durante l’arco della vita: «Secondo i dati più attendibili, in un terzo circa dei casi la malattia si manifesta una sola volta, in un terzo ci sono crisi ricorrenti, mentre in un terzo si tratta di una malattia cronica», spiega lo psichiatra Hans Ulrich Wittchen dell’Università di Dresda. In tutti casi, il disturbo incide pesantemente sulla produttività di chi ne soffre, aumentando i costi per le politiche sociali e di welfare. In Europa un lavoratore su dieci si assenta dal lavoro a causa della depressione, per un totale di 21mila giorni di lavoro persi. Mentre chi tiene duro deve fare i conti con mancanza di concentrazione, indecisione, perdite di memoria che possono rendere la giornata di lavoro un vero incubo. È quello che gli esperti chiamano presenteeism, ovvero la presenza sul luogo di lavoro in condizioni di salute non ottimali: un fenomeno che secondo alcune stime potrebbe avere costi anche cinque volte superiori a quelli dell’assenteismo vero e proprio.
Eppure, nonostante i dati allarmanti, parlare di un‘epidemia di depressione sarebbe improprio. «Se le prescrizioni di antidepressivi sono aumentate è perché oggi si tende a prolungare la terapia, da sei mesi a un anno, e anche perché è aumentata la longevità della popolazione », spiega Simon Wessely psichiatra al Kings College. Eppure, sono in molti a pensare che i dati disponibili siano approssimati per difetto, anche perché la malattia assume aspetti diversi nelle diverse età della vita. In generale, comunque, dare cifre precise sulla depressione è un’impresa quasi impossibile. A partire dal fattore distorcente rappresentato dal rischio di confondere la depressione patologica con la reazione fisiologica a un evento doloroso: «Ci sono situazioni, per esempio quando si subisce un lutto, in cui sentirsi depressi è perfettamente normale», spiega lo psichiatra George Christodoulou , presidente della World Federation of Mental health: «Il fatto che l’11 per cento degli americani assuma antidepressivi non vuol dire che in tutti casi si tratti effettivamente di depressione clinica».
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A dimostrare quanto sono limacciose le acque, c’è però il dato che, a livello mondiale, in molti casi sono proprio i casi più gravi a rimanere senza assistenza. Secondo i dati dell’Ocse meno della metà dei depressi riceve un trattamento adeguato, ma in alcuni paesi la percentuale diminuisce drasticamente, e solo un paziente su dieci ha accesso alle cure. Anche in Italia solamente il 34,3 per cento dei malati assume farmaci antidepressivi Se succedesse per qualunque altra malattia, si griderebbe allo scandalo.
MANAGER & DEPRESSOMa ai drammi umani causati da questa situazione si aggiunge osservano gli esperti, la sconfitta economica. «Abbiamo tutti gli elementi per affermare che, là dove sono state adottate politiche di cura mirate, l’economia ne ha tratto giovamento», ha aggiunto David Haslam, capo del Nice, l’agenzia britannica che valuta l’appropriatezza delle terapie. Un giudizio importante, il suo, perché negli ultimi anni la Gran Bretagna è stata in prima linea per promuovere l’accesso dei pazienti a interventi psicologici, terapia cognitivo comportamentale ma anche counseling, efficaci come e in molti casi più dei farmaci . Con un bilancio tutto sommato positivo: «Siamo riusciti a curare più di due milioni e mezzo di persone, un milione e mezzo ha concluso il trattamento e più di un milione ha risolto il proprio problema», ha spiegato Lamb.
Ora l’obiettivo è quello di abbreviare i tempi di intervento e facilitare l’accesso alle terapie. Ma è anche quello di allungare il tiro, coinvolgendo volontari o personale che ha seguito corsi di formazione finalizzati. Per supplire alla carenza di psicoterapeuti, ma non solo. Si è infatti osservato che un intervento nato dal posto di lavoro, sensibilizzando imprenditori e colleghi per prevenire la stigmatizzazione di chi soffre, garantisce risultati ottimali.
Lo dimostra l’esperienza di David Kinder, giovane e brillante funzionario del ministero delle Finanze inglese, che ha raccontato la sua esperienza di depressione, l’angoscia che l’ha colpito facendolo sentire inadeguato a un lavoro che amava. Ma anche il sollievo provato quando si è reso conto di avere dirigenti comprensivi: «Mi hanno fatto capire che ci tenevano alla mia collaborazione, e che erano disposti a lasciarmi il tempo per guarire», racconta Kinder. Che ha dato vita all’interno del ministero al Treasury’s Mental Wellbeing Network , una rete di supporto formata da volontari, pronta a venire in appoggio a chi soffre di disturbi mentali. E il suo non è un caso isolato: alla Deloitte è nato Fit for Success, un programma destinato ai manager e fondato da un ex paziente, e poi c’è la City Mental Health Alliance creata da Peter Rodgers della KPMG, una multinazionale dei servizi, mentre Business in the community ha lanciato il programma Workwell, “lavora bene”.
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Nel tentativo di contrastare il fatto che il 71 per cento di chi soffre nasconde il proprio disagio ai colleghi, e il 47 si aspetta di essere discriminato a causa della sua condizione. E ci sono già studi che mostrano come la possibilità di condividere la propria esperienza e di sentirsi compresi generi vantaggi maggiori di un orario flessibile e dei benefit economici. «La salute è un investimento», ricorda la sociologa Mary Baker dell’European Brain Council: «Una nazione sana è anche una nazione ricca».