Il liceo di Gentile. Le medie del centrosinistra. Poi basta. Fino ai dubbi sulla Buona Scuola di Renzi. Perché nelle aule italiane le riforme restano lettera morta. Nel progetto proposto ?alla discussione pubblica solo due dei dodici punti di partenza riguardano “cosa” insegnare. E nessuno il “come”
Deciso si cambia
. Niente più materie ma argomenti multidisciplinari, niente più cattedre ma gruppi di lavoro in cui professori e studenti siedono insieme intorno a un tavolo. In Italia? No, in Finlandia, paese che ha già risultati eccellenti nei test di comparazione tra gli studenti di tutto il mondo (Pisa) ma sente il bisogno di «un’educazione nuova per preparare le persone al lavoro».
Si cambia. Bisogna insegnare quello che è davvero essenziale: non storia o matematica ma condizione umana, «identità terrestre», comprensione, etica, strategie per affrontare gli imprevisti e altre “materie” che Edgar Morin ha elencato tra i “Sette saperi necessari all’educazione del futuro”.
A questi “saperi essenziali”, nel recente “Insegnare a vivere” il filosofo ha aggiunto un’altra materia, “Essere francesi”: chissà come questo capitolo verrà tradotto nella versione italiana del volume, in uscita a maggio per Raffaello Cortina. Ma questo, appunto, succede in Francia, dove è in gestazione una riforma sostanziale che riprende molti spunti delle provocazioni di Morin. Scopo ambizioso: tagliare alla radice la mala pianta dell’“apartheid” che spinge alcuni francesi di origine magrebina a farsi affascinare dal terrorismo islamista.
[[ge:rep-locali:espresso:285517878]]Si cambia dappertutto, insomma, ma non in Italia. Dove per trovare una riforma degna di questo nome bisogna risalire a più di cinquant’anni fa, alla legge che istituì la scuola media. Eravamo nel
1962, il presidente del consiglio era Amintore Fanfani, il ministro della Pubblica Istruzione Luigi Gui, ed era il governo delle “convergenze parallele”, che pur essendo ancora un monocolore Dc e non un vero centrosinistra contava sull’appoggio di Psdi e Psi.
A voler risalire più indietro si arriva addirittura al 1923: capo del governo Benito Mussolini, alla Educazione Nazionale Giovanni Gentile che al contrario di quello che si pensa comunemente dà l’impostazione ancora in uso non solo ai licei (classico e scientifico), croce e delizia della scuola italiana, ma anche alle elementari.
Quindi: elementari e licei risalgono agli anni Venti, con le medie arriviamo agli anni Sessanta. E oggi? La riforma annunciata trionfalmente da Matteo Renzi dopo l’approvazione in Consiglio dei ministri del 12 marzo - e da allora faticosamente in cammino in Parlamento - sembra aver già scontentato tutti. Non solo gli insegnanti precari che lavorano nella scuola a vario titolo da anni o anche decenni e che speravano nell’assunzione promessa (vedi l’articolo di Roberta Carlini a pagina 68) ma anche chi sperava di vedere cambiamenti concreti nella preparazione degli studenti, che tanto lascia a desiderare. Nei test Pisa siamo al trentaduesimo posto su 64 paesi, l’abbandono scolastico secondo l’Istat è del 17 per cento (cinque punti più della media europea) e per il consorzio Almalaurea più della metà degli universitari non ce la fanno a tenere il passo con gli studi, portando il tasso di abbandono al 55 per cento, il più elevato tra i paesi dell’Ocse.
Benedetto Vertecchi, decano dei pedagogisti italiani, taglia corto: «In realtà non capisco come la si possa chiamare riforma. Tuttalpiù “de-forma”, come direbbe Tullio De Mauro». Che però per parte sua alza le mani: «Per spiegare quello che non va in questo progetto ci vorrebbero pagine e pagine», spiega il linguista, ministro della Pubblica Istruzione nel 2000 per il governo Amato, che ai problemi della scuola ha dedicato diversi libri e molti intereventi su quotidiani e settimanali.
È vero che il testo è ancora in discussione, e quindi teoricamente aperto a variazioni. Ma già nel progetto per la “
Buona scuola” proposto dal governo Renzi alla discussione pubblica nel settembre scorso, solo due dei dodici punti di partenza riguardavano “cosa” insegnare, e nessuno il “come”. Nel disegno di legge presentato in parlamento, tra gli obiettivi della riforma si elencano a raffica il potenziamento, l’introduzione o il reintegro di una quantità di materie: inglese, matematica, musica, arte, diritto, economia, creazione di video e programmi, nonché il rispetto di legalità, ambiente, paesaggio e monumenti. «Ma di materie ne abbiamo già fin troppe», protesta Paola Mastrocola, scrittrice che alla sua esperienza come professoressa di Lettere in un liceo scientifico si è ispirata direttamente per saggi e romanzi (“Una barca nel bosco”, “Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare”, Guanda) e indirettamente per il libro più recente, una divagazione in forma di favola epistolare su cosa (e chi) serve davvero e cosa no (“L’esercito delle cose inutili”, Einaudi).
«Educazione alimentare, stradale, sentimentale, sessuale», elenca la scrittrice. «Educazione alla legalità, alla solidarietà... Tutto bene: ma poi i nostri ragazzi non sanno più leggere e scrivere. La “Buona scuola” di Renzi vuole reintrodurre la musica, ed è un’idea bellissima: tutte le materie che spingono i ragazzi a esprimersi artisticamente sarebbero le benvenute. Ma dove lo troviamo il tempo per insegnarle? È vero che si parla di scuole aperte tutto il giorno, tutti i giorni e tutti mesi dell’anno: ma allora non resterebbe più il tempo per la solitudine e la concentrazione per gli studenti e quello per l’aggiornamento dei professori, che sono altrettanto importanti. Nel mio libro “La scuola raccontata al mio cane” proponevo di alternare tre ore di lezione e tre di meditazione in solitudine...».
[[ge:rep-locali:espresso:285517877]]Resta il fatto che del disegno di legge in discussione in Parlamento 76 pagine su 130 sono dedicate non ai contenuti ma ad assunzioni e ristrutturazioni. «Del resto», commenta Claudio Gentili, vicedirettore Education di Confindustria, che insegna anche Economia della conoscenza all’Università di Bergamo, «lo stesso Renzi l’ha definita “un provvedimento per rimettere i temi della scuola al centro”, che affronta le questioni dell’edilizia scolastica e del precariato, temi sicuramente molto importanti. Tuttavia nel testo presentato in consiglio dei ministri sono apparse 13 deleghe pesantissime, con novità rilevanti che possono cambiare profondamente la scuola delineata nel ’74-75 dai decreti Malfatti».
Già: i decreti “Malfatti di nome e di fatto”, come li definì a suo tempo una vox populi ancora di moda con un facile gioco di parole sul cognome del ministro Franco Maria, uno dei più longevi nella storia dell’Istruzione italiana: in un periodo di governi brevissimi, fu confermato per per ben cinque anni a capo del ministero. I decreti che portano il suo nome, nati sull’onda lunga delle contestazioni del ‘68, sono quelli dell’apertura alla democrazia (consigli di classe per i docenti, rappresentanti per gli studenti) e alla sperimentazione (come il “progetto Brocca”, che univa materie dello scientifico a diritto ed economia).
Se Malfatti voleva rispondere al Sessantotto, uno dei motivi che tarpano le ali alla riforma Renzi è proprio qui: «È la mancanza di prospettiva», come spiega Vertecchi. Fino ad oggi, i tentativi di rimettere mano all’organizzazione della scuola avevano un fine preciso, che corrispondeva a quello più importante per il paese in quel periodo storico. «La scuola italiana nasce quando il neonato Regno d’Italia decide che il paese deve avere una profonda rivoluzione culturale, e un popolo in prevalenza analfabeta deve arrivare almeno a saper leggere e scrivere», ricorda Vertecchi. «E un secolo dopo la riforma della scuola media è riuscita perché ha portato gli studenti a competenze di scrittura e lettura più approfondite, più adatte al boom economico degli anni Sessanta».
In fondo, nel loro piccolo, anche altri tentativi di riforma avevano uno scopo chiaro. Negli anni Ottanta sembrava che uno degli handicap dei giovani italiani fosse il fatto di andare a scuola un anno in più dei coetanei europei: e l’allora ministro Luigi Berlinguer studiò il modo di accorpare elementari e medie in un unico corso di sette anni. Riforma uccisa sul nascere dal cambio di governo: con il presidente Silvio Berlusconi e il ministro Letizia Moratti elementari e medie restano com’erano (con un sospiro di sollievo delle private che concentrano la loro offerta soprattutto sui primi anni di scuola) e si punta invece sulle “tre i”: inglese, informatica e impresa dovevano formare giovani pronti per il mercato del lavoro e una carriera di successo. Passano pochi anni, al governo c’è sempre Berlusconi, al ministero Maria Stella Gelmini, e le “tre i”, rimaste sostanzialmente lettera morta, vengono sostituite dalla “grande t”, quella dei tagli: a partire dalle sperimentazioni nei licei e dal pool di maestri che consentivano il tempo pieno alle elementari. Cade vittima dei tagli anche il nome del ministero: dal 2008 l’istruzione non è più “Pubblica”, a conferma del ruolo sempre più importante che il governo conta di affidare alle scuole private.
Ecco: la “Buona scuola” di Renzi non si capisce proprio dove vuole andare a parare. E quel poco che è chiaro, è anche chiaramente impossibile. Prendiamo l’inglese, il grande ammalato dell’istruzione italiana. Il 12 marzo Renzi ha garantito «particolare attenzione, dalla primaria, alla assoluta professionalità di chi insegna l’inglese, per dare insegnamenti non appiccicaticci - per cui si fa fare un corsettino alla maestra - ma si richiede un inglese assolutamente perfetto». Ma come si concilia questo con i 150 mila “vecchi docenti” da confermare? «E a noi che siamo già a scuola, chi ci insegna a fare lezione in un inglese perfetto?», chiede la Mastrocola. Che però nella “Buona Scuola di Renzi vede soprattutto un pericolo: l’autovalutazione.
«Giudicare il valore di un professore è difficilissimo, ma di certo è sbagliato usare il criterio del numero delle bocciature. Perché così si spingono le scuole a promuovere tutti, abbassando ancora di più il livello dell’istruzione. E questo», sottolinea con passione, «è un danno grande ed irreparabile soprattutto per i ragazzi delle famiglie meno abbienti, quelli che proprio in un livello altissimo di istruzione vedono l’unica chance per migliorare culturalmente e socialmente». Altro punto forte dell’attuale progetto di riforma è il rilancio dell’autonomia. «E questo è il vero nodo», commenta Gentili. «Siamo in mezzo al guado per un’autonomia che è stata concessa ma a metà: non c’è la possibilità di decidere né la gestione del personale né l’organizzazione scolastica. Infatti in teoria le scuole possono scegliere di modificare il 20 per cento del curriculum, per esempio togliere 3 ore di arte e mettere 3 ore di scienze. Ma questo non avviene perché il collegio dei docenti difficilmente approva modifiche che vanno a ledere lo status di alcuni di loro».
Forse è vero che i tempi sono sempre più incerti, e che è difficile anche capire in quale direzione andare. «Molti di noi sono cresciuti studiando al liceo sugli stessi libri di testo usati dai genitori», nota Vertecchi. «Oggi invece un bambino il primo giorno di scuola inizia un viaggio che non sappiamo assolutamente prevedere dove lo porterà. Certo però, da chi si occupa di istruzione, ci si aspetterebbe almeno un po’ di cultura...». A chi ispirarsi? Gentili cita tre libri: “Una testa ben fatta” di Morin («propone meno materie e più scienze integrate, con un docente “leader” capace di insegnare in modo interdisciplinare»), “Formae mentis” di Howard Gardner («sostiene come la nostra scuola sia disegnata per premiare l’intelligenza logico-matematica, mentre esistono intelligenze multiple - spaziale, interpersonale, cinestetica etc - che presuppongono una didattica personalizzata»), e infine“Modernizzare senza escludere” di Bertrand Schvartz, «un ingegnere di Lille secondo cui il lavoro rimotiva allo studio, quindi alternare ore di studio e ore di lavoro significa far capire allo studente che il lavoro ha una funzione culturale e che la buona scuola favorisce l’occupabilità».
Oltre ai libri, però, chi si propone una riforma dovrebbe prima di tutto conoscere le scuole. De Mauro in un’intervista recente ricordava che «Giuseppe Bottai che era un razzista, ma un grande ministro, per i primi sei mesi preferì ispezionare le scuole senza nessun preavviso. Questo significa andare a vedere seriamente come sono». Renzi e i suoi consulenti sulla Buona Scuola (a partire dal ministro di riferimento, Stefania Giannini, il cui nome curiosamente non viene fatto mai) sei mesi ormai non ce li hanno. Ma almeno possono guardare “Tutte le scuole del Regno”, di Marco Bechis e Caterina Giargia, presentato da Raiuno il 29 marzo e ora in giro per festival (prossima tappa a Milano il 26 aprile, per “Cinema italiano visto da Milano”). È il racconto di quattro scuole di Palermo e della loro preside. Che all’inizio del film si sveglia dopo un incubo: la sua scuola è stata trasformata in un albergo. Ecco: questo, nella riforma edilizia della “Buona scuola” di Renzi, di sicuro non c’è.