La presidente della Camera è presa di mira per il suo tentativo di favorire il genere femminile. Ma sembra una lotta contro i mulini a vento. Perché noi italiani con la nostra lingua siamo troppo conservatori
La presidente della Camera Laura Boldrini ha preso posizione, anche rifacendosi a linguisti e linguiste, a favore dell’uso del genere femminile in espressioni come “la presidente”, “la ministra”, “l’architetta”. Questo ?le ha guadagnato lazzi e cachinni da parte dei suoi numerosi antipatizzanti.
Linguisticamente, e logicamente, ?ha tutte le ragioni, ma l’argomento ?è tabù, e i tabù non si toccano senza scottarsi. Inoltre non si può imporre il bon ton per legge: nella lingua la legge è l’uso, come disse fra gli altri già Alessandro Manzoni. Nulla impedisce, certo, di promuovere usi più corretti.
Il fatto è che come parlanti siamo mediamente conservatori e di fronte ?a nuovi usi linguistici recalcitriamo. Diciamo che “femminicidio” sia un termine inaccettabile, ma non ci sogneremmo mai di protestare contro “infanticidio”. Sentiamo la “tetta” nell’“architetta”, ma non riteniamo ridicole parole a cui siamo abituati, come “protetta” o “pastetta”. ?E viene da pensare che non sia ?un caso che Carlo Dossi ha intitolato il suo capolavoro di misoginia letteraria “La desinenza in A”.
Proprio in quei giorni è circolata su qualche social network la fotografia di un cartello, presumibilmente esposto in una vetrina o bacheca: “Cercasi apprendista/o”. Potrebbe essere il titolo di una canzone di Renzo Arbore: “La ministra e l’apprendisto”. Magari aiuterebbe tutti a sfatare il tabù e a prendere le cose più alla leggera.
Anagramma: Laura Boldrini = ?Urbano il dir l’A