Parla l'autore di 'L'estate dell'amicizia', racconto del legame tra due scrittori, Stefan Zweig e Joseph Roth, simbolo della Mitteleuropa e dei suoi valori

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È un crocevia simbolico, il Café Einstein di Unter den Linden, proprio di fronte agli uffici Aeroflot che rievocano la Guerra fredda e la Berlino divisa dal Muro. È qui che incontriamo Volker Weidermann, critico letterario e saggista, in procinto di cambiare indirizzo all’interno della “Kulturindustrie” tedesca: dalla “Frankfurter Allgemeine” a “Der Spiegel”; da una potenza all’altra. Weidermann, 46 anni, ha scritto un romanzo-saggio, “L’estate dell’amicizia”, ora tradotto da Neri Pozza, che in patria ha venduto quasi 100 mila copie narrando con sensibilità l’amicizia di due grandi scrittori esiliati, nel 1936 a Ostenda in Belgio, Stefan Zweig e Joseph Roth, i loro sodali di sventura, la loro idea d’Europa e della civiltà minacciata.

La Germania, grazie alla Fiera di Francoforte e al Goethe Institut, è l’ospite d’onore al Salone del Libro di Torino (14-18 maggio), e questo intellettuale ancora poco noto in Italia ci può aiutare a riflettere come, accanto alla diffusa fissazione sulla “potenza economica”, con tratti antipatizzanti intorno alla “sindrome Merkel”, esista, sottovalutata, una Germania “potenza culturale”.

Caro Weidermann, perché si è messo sulle tracce dei perseguitati di Ostenda, nel lontano 1936?
«Tutto comincia dall’amicizia. La forte amicizia tra Zweig e Roth, che mi colpì fin dal primo anno dei miei studi universitari a Heidelberg, si sviluppò in tempi difficili e a dispetto di posizioni e caratteri antitetici. La loro fu un’amicizia disinteressata e radicale: in senso letterario, politico, religioso. Esiste un’unica foto dei due insieme: Roth lievemente ubriaco, Zweig che quasi gli cinge la spalla, e fu scattata proprio a Ostenda dall’amante di Zweig, Lotte Altmann. Conoscevo le loro lettere, ho cercato altre testimonianze. Studiando scoprii la presenza negli stessi bistrot, sulla stessa Promenade, di altri autori fuggiti dalla Germania hitleriana. Erano le ultime estati, nell’attesa della guerra incombente. Ho voluto mettere questa storia sotto una lente d’ingrandimento».

L’amicizia come valore in sé?
«Come valore in sé, e come essenza di un rapporto umano al di là delle posizioni ideologiche. Zweig, all’apparenza impolitico, perseguiva un ideale umanistico dell’Europa; Roth, che attraversò l’intera battaglia delle idee di inizio secolo, cominciò da comunista, poi fu giornalista democratico, e finì monarchico nostalgico degli Asburgo, con tratti vagamente maniacali. E poi Egon Erwin Kisch, giornalista militante, comunista come molti all’epoca. Tutti loro, anche Irmgard Keun, la giovane amica di Roth, avevano lo stesso avversario, il regime nazionalsocialista. Ma il punto è che il paneuropeismo di Zweig, il monarchismo di Roth, il comunismo di Kisch in sostanza convergono: intorno all’idea di Europa».

Interessante. Si spieghi meglio.
«L’idea monarchica di Roth non era poi così dissimile dall’ideale internazionalista di Kisch. Stato universalista, ostilità a ogni nazionalismo, fratellanza di popoli, oggi diremmo “multietnica”. In più, l’aspetto sociale: perfino un piccolo outsider, un ebreo nato povero ai margini estremi d’Europa, oggi Ucraina, poteva arrivare al successo a Vienna attraverso l’educazione scolastica, l’accesso all’università. Anche questo era, per Roth, la monarchia danubiana».
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Qual era la vera patria, per gli esuli del 1936: la lingua tedesca?
«Certamente. La letteratura degli scrittori cacciati dalla terra natìa esercita su di me un fascino particolare. L’esilio fu la loro forma di lotta. E i roghi dei loro libri a opera dei nazisti sono un episodio terribile della storia, ma ci ricordano anche quanta importanza la letteratura, allora, ricoprisse per i suoi nemici. La letteratura aveva ancora un peso decisivo. Si bruciavano i libri per paura della forza sovversiva di quegli autori».

Un peso, anche politico, che oggi la letteratura non ha più.
«Appunto. E il paradosso è che oggi molti tra i testi più incisivi della nuova letteratura di lingua tedesca sono prodotti da autori dell’emigrazione. Penso a Katja Petrowskaja dall’Ucraina, Feridun Zaimoglu dalla Turchia, Maxim Biller da Praga, Terézia Mora dall’Ungheria. E naturalmente Herta Müller, nata e cresciuta nella Romania della minoranza tedesca. Parliamo di autori molto rilevanti».

In Italia, Roth è ben noto dagli anni Ottanta, ma di recente si ripubblicano Zweig, Erich Maria Remarque, Klaus Mann. È uscito un romanzo di Klaus Modick su Lion Feuchtwanger e Bertolt Brecht espatriati in California. Negli Usa è stato un vero caso la scoperta di “Ognuno muore solo” di Hans Fallada, mai tradotto dal 1947. Che cos’è, nostalgia per una Germania perduta?
«Io penso che nella cultura politica di noi europei la forza quasi egemonica dell’economia tedesca crei un disagio. Mi allarma vedere come la crisi degli ultimi sei anni abbia prodotto in Europa questa reazione collettiva verso il ritorno alle sovranità nazionali, l’ipotesi di richiudere le frontiere. Il governo tedesco mi pare abbia qualche responsabilità. E perciò sarebbe bello se questi autori della Germania novecentesca evocassero un po’ di nostalgia verso quell’“altra Germania”, i suoi ideali, le sue qualità».

Anche in Italia la Germania di Angela Merkel è etichettata da molti come “potenza economica” prepotente e impositiva. Non è un riduzionismo imbarazzante?
«In tal senso non sarebbe male, oggi, ritrovare un progetto letterario capace di agire su scala europea. Negli anni Trenta vi furono i congressi letterari internazionali, e non solo di ispirazione comunista».

Parliamo di Klaus Mann, André Gide, George Orwell...
«Anche oggi in Germania abbiamo qualche autore engagé; ma ognuno fa per sé, con interessi molto focalizzati. Mi fa piacere constatare che questo mio libro sugli esuli tedeschi sia stato venduto negli Stati Uniti, in Italia, Francia, Spagna, Cekia...».

Si può affermare che dal 1945, con la perdita di tanti autori ebrei, la Germania letteraria ha perso molta qualità?
«Lei tocca un tema assolutamente centrale. È una delle catastrofi culturali del ventesimo secolo. Il mio saggio sui “libri bruciati” del 2008 ricorda tanti autori che finirono al rogo da giovani, all’inizio dell’attività, le cui tracce furono letteralmente polverizzate. Chissà cosa ci avrebbero regalato. Nei primi anni Cinquanta c’era ancora molta freddezza verso gli autori emigrati dopo il 1933. Erano considerati traditori».

C’è chi difende con passione la memoria della Germania antinazista scomparsa. La cantante Ute Lemper, per esempio.
«Lei saprà che da noi Ute Lemper ha meno successo che negli Stati Uniti o in Italia. Critiche fredde, spesso. Anch’io fatico a spiegarmelo».

Marlene Dietrich, quando si riaffacciò in Germania dopo la guerra, fu ritenuta “traditrice” e “americana”...
«Vero. Uno dei pochi ritorni felici fu quello di Brecht, ma nella Ddr. Non così Thomas e Klaus Mann, non Alfred Döblin. Molti scelsero la Svizzera».

Günter Grass è appena mancato. Un’intera generazione di intellettuali pubblici, Enzensberger, Habermas, Peter Schneider volge alla fine. Non si vede un erede, una figura di acclarata statura internazionale: come mai?
«Forse la generazione della guerra ha gettato un’ombra troppo lunga. Forse il ruolo dello scrittore come intellettuale pubblico, che interviene su tutto, modello Grass, non è più così richiesto, in un mondo complesso, incendiato da mille conflitti. Siamo nell’epoca degli specialisti. Quello che ci serve, però, è uno scrittore con una forza espressiva tale che possa brillare in tutta Europa. Ci sono diversi autori giovani che potrebbero sviluppare questa voce in futuro. Dobbiamo tutti riprendere a leggere e ad ascoltare».

L’ultimo Grass ha avuto un ruolo pubblico controverso.
«Grass ha avuto il talento di incidere politicamente, e lascia di sé una traccia importante. Enzensberger, per esempio, è diverso: civetta con le sue contraddizioni, teorizza una cosa e subito scarta di lato e afferma il contrario, con un tratto ironico, quasi parodistico. Grass, invece, da intellettuale universalista si è indebolito proprio per la sua smania di commentare su tutto, talora in modo improprio. Da ultimo soffriva di protagonismo, faticava ad accettare critiche; ci fu la sua infelice poesia su Israele; la sua confessione estremamente tardiva dell’adesione giovanile alle SS, dopo una vita passata a dar lezioni di sincerità e coerenza agli altri... Grass è stato per me l’incarnazione della Germania moderna, del sapere o non sapere ricordare. Elaborare i drammi del nazismo è ormai parte integrante della nostra cultura politica».

In effetti, “Der Spiegel” sforna almeno quattro copertine l’anno sul tema. L’ultima, molto audace, su Merkel e la Wehrmacht ad Atene. Che mi dice della Cancelliera?
«Direi questo: nel negoziato tra interessi nazionali e interessi altrui, Helmut Kohl è stato più capace di lei. Alla generazione di Kohl era forse più chiaro quanto fosse ancora fragile l’organismo Europa, quante attenzioni richiedesse. Merkel ha altre doti, ma dovrebbe essere più cauta con Paesi amici che possono temere l’egemonia economica o politica della Germania: Italia, Spagna, per non parlare della Grecia. Quanto a retorica politica, alla Cancelliera manca qualcosa».

Lei sarà ospite al Salone di Torino. Quali autori da export consiglierebbe ai lettori italiani?
«Ingo Schulze è importante, a lungo è sembrato riprendere qualcosa del ruolo politico di Grass. Da tre anni è meno presente nell’opinione pubblica, credo stia scrivendo; segnalo “Semplici storie” e “Vite nuove”. Poi Daniel Kehlmann, scrittore molto addentro alla storia intellettuale tedesca: “La misura del mondo” è un’opera cruciale, e riecheggia la tradizione della “Exilliteratur” alla Roth. Direi anche Maxim Biller, molto attivo come commentatore nei media, e notevole talento linguistico».

La Germania di oggi fa fatica a produrre star internazionali dal carisma immediato. Chi sono i nuovi Wim Wenders? I Karajan nella musica? I Beuys nell’arte?
«Bella domanda. C’è forse un certo senso protestante che ci frena, una sobrietà di fondo, chissà. Mi viene in mente proprio Daniel Kehlmann: tradotto in mezzo mondo, ma persona introversa, non certo una star mondana».

Sembra quasi che un talento tedesco per sfondare abbia bisogno dell’aiutino di Hollywood. Christoph Waltz, attore superlativo, è stato lanciato da Quentin Tarantino.
«Esempio perfetto, quello fu il trampolino. Ma non esiste una regola generale per creare una star mediatica. Neanche in altri Paesi. Guardi Michel Houellebecq. Ci ha messo un po’ anche lui a uscire dalla Francia, e c’è voluta la sua arte di fabbricare scandali. O no?».