
Come tutti, gli europei vivevano di caccia e raccolta. Finché 11-12mila anni fa popolazioni del Medio Oriente inventarono l’agricoltura. Un’innovazione che permise loro di moltiplicarsi e migrare, ancora una volta in Europa. Una marcia delle idee più che di uomini, pensavano gli archeologi: una rivoluzione culturale propagatasi fra i cacciatori-raccoglitori europei spingendoli alla vita agricola. Ed è subito oggi.
Poi il quadro ha iniziato a complicarsi. La crescente capacità di leggere il Dna conservato nelle ossa fossili ha permesso di ricostruire parentele e spostamenti delle popolazioni preistoriche, aggiungendo una potente fonte di informazioni a quelle archeologiche. E ha mostrato che l’Europa non è stata invasa dall’agricoltura, ma dagli agricoltori: 8-9mila anni fa i pionieri della Rivoluzione neolitica penetrarono in massa dal Medio Oriente in Grecia e Bulgaria e poi nel resto del continente, imponendosi sugli autoctoni. L’Europa non è stata invasa una volta, dunque, ma due, e noi europei siamo un mix delle due popolazioni, con una forte impronta della seconda.
Ma era ancora troppo semplice. Nel 2013 due studi su “Science” guidati da Guido Brandt e da Ruth Bollongino, entrambi alla Johannes Gutenberg University di Magonza, hanno sconvolto di nuovo il quadro: gli agricoltori mediorientali si sono sì diffusi nel continente, ma con una marcia tutt’altro che inarrestabile. È stato piuttosto un andirivieni con tentativi ed errori, fughe in avanti e ritirate, migrazioni da un capo all’altro, a volte scalzando i loro predecessori ma altre volte mescolandosi, condividendo luoghi di vita e sepolture, scambiando geni ma anche manufatti e culture, preziose forse per imparare a resistere ai rigori del Vecchio Continente.

Chi erano questi uomini venuti dall’est? Il Dna comincia col dirci che dalla Siberia si sono mossi sia verso le nostre coste sia verso l’America perché i loro geni si sono conservati in quelli dei nativi americani.
E ci racconta anche dove si sono radicati maggiormente una volta giunti in Europa. Gli scandinavi conservano un maggior contributo del gruppo fantasma eurasiatico, che in media costituisce il 20 per cento del genoma europeo ma dalla Scozia alla Norvegia all’Estonia arriva al 30 per cento. Mentre, per esempio, i sardi appaiono i più legati agli agricoltori mediorientali, cui somigliano geneticamente al 90 per cento.
C’è da credere a questo nuovo nostro albero genealogico? Le perplessità sono venute da un grande paleogenetista, Carles Lalueza-Fox dell’Istituto di Biologia evoluzionistica di Barcellona. E Reich e Krause si sono rimessi al lavoro. Realizzando «un enorme salto di qualità. In un solo studio hanno analizzato 69 individui – oltre il doppio di quelli sequenziati in tutti gli studi precedenti – coprendo un arco temporale da 8mila a 3mila anni fa, su vaste zone d’Europa» spiega Olga Rickards, professore di Antropologia molecolare all’Università di Tor Vergata a Roma.
I risultati, pubblicati qualche settimana fa su “Nature”, non solo confermano che il fantasma c’era ma gli danno un volto. «Al pool genico europeo hanno contribuito non solo i cacciatori-raccoglitori eurasiatici e i pastori-agricoltori mediorientali, ma anche questa popolazione venuta dalle steppe asiatiche fra la Russia e l’Ucraina», dice Rickards.
All’epoca nell’Europa centrale prosperava la cultura della ceramica cordata, detta così dai caratteristici disegni con cui decorava il vasellame, e abile nella produzione casearia. Nelle steppe a nord del Mar Nero vivevano i pastori Yamnaya, provetti cavalcatori e allevatori, che seppellivano i morti in caratteristici tumuli detti kurgan e furono probabilmente fra i pionieri dei veicoli a ruota. Ebbene, Reich ha dimostrato che si trattava di uno stesso popolo: con una rapida e massiccia migrazione 4500 anni fa gli Yamnaya hanno occupato l’Europa centrale, rimpiazzando o quasi gli autoctoni e generando la cultura della ceramica cordata. Di qui i loro geni si sono diffusi verso sud.
Fino all’Età del bronzo quindi gli europei non erano come li conosciamo oggi: l’odierno genoma europeo non esisteva. E forse non solo quello. Il popolo delle steppe potrebbe averci portato anche le lingue.
Sulle origini delle oltre 400 lingue indoeuropee, parlate da tre miliardi di persone dall’Alaska alla Nuova Zelanda, da decenni si scontrano due tesi. Un tempo si riteneva che la misteriosa lingua madre, il protoindoeuropeo, venisse proprio dalle steppe eurasiatiche, da cui da 5-6mila anni fa aveva conquistato l’Oriente e l’Occidente sulla scia del cavallo e della ruota. A fine anni ’80 l’archeologo britannico Colin Renfrew, di Cambridge, ha proposto invece un’origine mediorientale, in Anatolia, da cui 8-9mila anni fa si sarebbe diffusa con la Rivoluzione neolitica.
Di recente il pendolo sembrava oscillare a suo favore. Non solo la genetica ha dimostrato l’espansione in Europa degli agricoltori mediorientali, ma nel 2012 Quentin Atkinson, dell’Università neozelandese di Auckland, ha ricostruito su “Science” un albero genealogico della famiglia linguistica indoeuropea, confrontando come variano parole con una stessa origine ancestrale, come «madre», l’inglese «mother» e il tedesco «mutter». E anche lui ne ha collocato le origini in Anatolia circa 8mila anni fa.
I fautori delle steppe ribattono che le lingue indoeuropee sono ancora troppo simili per essersi separate da tanti millenni, e che il protoindoeuropeo sembra includere vocaboli riferiti alla ruota, che all’epoca non esisteva. Mancavano però le prove di un imponente afflusso di popolazioni dalle steppe, e anzi sembrava difficile che in un continente già affollato dopo la Rivoluzione neolitica potesse trovare spazio un terzo incomodo. Ora invece Reich ha dimostrato che il terzo incomodo è arrivato, e al momento giusto.
In queste stesse settimane poi due linguisti di Berkeley, Andrew Garrett e Will Chang, hanno ricostruito su “Language” la genealogia delle lingue indoeuropee ribaltando le conclusioni: per loro il protoindoeuropeo ha 6mila anni, in piena coerenza con l’ipotesi delle steppe.
Le due tesi tornano quindi a giocarsela ad armi pari. Forse aiuterebbero analisi genetiche anche sull’altro versante, in Oriente. Ma qui il clima non aiuta, spiega Rickards: «su India e Iran non si sa niente, non ci sono pubblicazioni. Non escludo che qualcuno ci abbia provato, ma in un clima caldo e umido il Dna si degrada e le rese sono scarse. Ci sono studi in corso in Turchia, ma ancora nulla di pubblicato».
Del resto non è detto che nuove analisi chiariscano le idee anziché confonderle di più. Come chiosa Rickards: «man mano che gli studi aumentano il quadro non fa che complicarsi. Magari salterà fuori anche una quarta migrazione. E non mi sorprende, perché i quadri semplici sono inevitabilmente poco realistici».