Gli appelli on line oggi cambiano la realtà più dei partiti. E funzionano meglio su questioni ignorate ?dai grandi media. Parla ?Ben Rattray?, il leader di Change.org

Se siete convinti che gli appelli on line non servano a niente, sappiate che ci sono circa cento milioni di persone che non la pensano come voi: sono quelle che hanno contribuito con le loro firme al successo di Change.org, la piattaforma americana di petizioni su Internet.

Ben Rattray, il suo leader carismatico, è stato inserito dalla rivista “Time” fra le cento persone più influenti del mondo. Ha 35 anni, ha studiato a Stanford e nel 2007 ha creato la piattaforma in cui chiunque può creare una petizione, raccogliere firme, e fare pressione su aziende e governi per cambiare leggi o politiche aziendali. In Italia il sito ha 3 milioni di utenti attivi, con 9.000 petizioni in corso.

Fra le più celebri quella di Salvatore Usala, che con 46 mila firme è riuscita a sbloccare 400 milioni di fondi per i malati di Sla; o quella di Libera di Don Ciotti per togliere il vitalizio ai politici condannati (300 mila firme); e quella di Laura Bernoldi, malata di cancro, che con 50 mila firme è riuscita a non farsi pignorare la casa.

La startup digitale ha di recente raccolto 25 milioni di dollari dai più noti filantropi americani: Bill Gates, il patron di eBay Pierre Omidyar, la star di Hollywood Ashton Kutcher. Fondi che permetteranno all’azienda di espandersi e fornire agli utenti la struttura necessaria per far sentire la propria voce: «Avremo un impatto anche maggiore in Europa che in America: nel Vecchio Continente si vedono di più i segni della fine della politica tradizionale», dice Rattray.

change.org
Una firma su una petizione on line può cambiare la società?
«Quando la gente pensa alle petizioni spesso crede si tratti di far sentire la propria voce e nulla più. In realtà con una petizione si entra a far parte di una comunità. Che può essere mobilitata per raggiungere chi prende le decisioni, i media, per raccogliere fondi: c’è un numero infinito di cose che si possono fare dopo aver firmato una petizione. Per questo le intendiamo più come campagne: che partono con una firma e finiscono con una vittoria».

È giustificato lo scetticismo di molti sulla vera efficacia delle petizioni on line?
«C’è stata un’accelerazione enorme nella crescita delle nostre campagne di successo: oltre 10 mila negli ultimi due anni. Chi è stato attento non può affermare che le petizioni non abbiano oggi un impatto sulla realtà. Sta accadendo globalmente, in culture e sistemi politici diversi. Le persone comuni sono sempre più in condizione di avere potere».

Merito di Change.org ?
«Siamo diventati il luogo più efficace per dare voce a queste persone perché c’è un vuoto nel mercato delle rivendicazioni sociali, dei “corpi intermedi”. Il fatto che così tante persone utilizzano Change.org è il segno di un fallimento delle istituzioni esistenti nel rispondere a grandi problematiche».

Social, media o produttore di contenuti? Che cosa meglio identifica Change.org?
«Cerchiamo la maniera migliore per permettere ai nostri utenti di far sentire la propria voce e connetterli ai meccanismi dei media, tradizionali o nuovi. Non ci interessa avere l’esclusiva sui cambiamenti sociali. Non vogliamo provare a sostituire i media, ma integrarci».

Le petizioni ottengono successo anche nei sistemi meno democratici?
«In paesi come il Messico, storicamente una democrazia non fra le più recettive, o l’Indonesia - e perfino in Russia - abbiamo vinto un incredibile numero di campagne. Centinaia di leggi locali e nazionali sono state cambiate perché Change.org ha veicolato le petizioni nella maniera giusta».

Come ha reagito la politica alle vostre campagne?
«All’inizio le istituzioni più ricettive erano le aziende. Ma ora questo sta cambiando: rispondere alle petizioni non è solo un’opportunità per i politici, è una necessità. Perché gli elettori stanno su Change.org. Stiamo per lanciare una nuova piattaforma che permetterà ai politici eletti di rispondere direttamente. Abbiamo coinvolto i sindaci di Parigi, Londra, New York, e in Italia il sindaco di Napoli, Luigi De Magistris».

Esiste il rischio che adesso i politici utilizzino la vostra piattaforma per farsi propaganda?
«La promessa che facciamo ai nostri utenti è dar loro gli strumenti necessari a massimizzare le possibilità di riuscita di una campagna. Assicurarsi che i responsabili istituzionali siano in grado di ascoltarti fa parte di questo. Vogliamo dare ai politici gli incentivi perché si interessino ai problemi dei cittadini. Non sempre i politici sono cattive persone: spesso hanno solo avuto incentivi sbagliati».

Ma ci sono già strumenti e luoghi istituzionali perché i cittadini comunichino coi loro rappresentanti...
«Uno dei rischi maggiori, parlando di nuove tecnologie, avviene quando un governo prova a costruire le proprie piattaforme per rispondere ai cittadini, come è accaduto nel Regno Unito o alla Casa Bianca. Perché costruirà sempre questi strumenti in modo da potersi assicurare il controllo del messaggio. Con noi accade l’opposto, perché siamo una parte terza indipendente».

Ma il fatto che la vostra piattaforma sia proprietà di una compagnia privata, non è anche questo un richio?
«Per questo abbiamo deciso di non prendere finanziamenti da capitali di rischio, accettiamo fondi solo da persone che credono nel progetto e che non siano in posizioni di controllo diretto delle proprie compagnie. Saremo capaci di sostenerci da soli nei prossimi anni generando ricavi. Nella stessa maniera di Google o Facebook: avremo le petizioni sponsorizzate, quelle delle maggiori Ong in cerca di pubblico e sostenitori».

I media mainstream giocano un ruolo importante nel successo delle vostre petizioni?
«Sì. Ma il 40 per cento delle nostre vittorie sono costituite da petizioni che raccolgono meno di 200 firme. C’è un numero incredibile di campagne minori di cui non leggerai mai sui media perché non riguardano storie di grande impatto».

E Facebook? I social?
«Facebook ci riguarda solo in termini di canale di distribuzione. Sulle piattaforme social media siamo agnostici. Non abbiamo una strategia specifica per Facebook. Ci concentriamo ad avere un contenuto unico, appassionato e che faccia sentire le persone parte di una comunità».

Sono tantissime le celebrità che lanciano petizioni. È diventato “cool” essere “rivoluzionari”?
«Le celebrità hanno maggior potere e influenza perché possiedono i propri canali di distribuzione, grazie ai social media. Oggi succede che gli adolescenti creano petizioni e le celebrità arrivano a sostenerli. C’è stato un cambio di prospettiva rispetto a quando i giovani seguivano i vip passivamente: è emozionante, no?».

Movimenti sociali, politica che cambia. Che cosa pensa delle esperienze politiche nate dal basso come Syriza in Grecia o Podemos in Spagna?
«Sono i primi indicatori della reale rottura che sta avvenendo nei partiti tradizionali, che è inevitabile e finora sottovalutata da chi si trova al potere. I partiti non moriranno, ma dovranno adattarsi a un nuovo ecosistema. È un problema ancora maggiore in Europa rispetto agli Usa, dove abbiamo solo due schieramenti politici a confrontarsi e quindi un sistema più difficile da scardinare».

Da adolescente voleva diventare finanziere e pensava di entrare in politica a 35 anni. Ora ha abbandonato la finanza ma ha raggiuto i 35 anni: entrerà in politica?
«No, non ne ho alcuna intenzione. Sono soltanto un osservatore. Ciò che mi interessa è la struttura di Change.org, che nel lungo periodo potrà cambiare la maniera in cui l’establishment prende le decisioni. Non ha senso essere un giocatore sul campo quando puoi contribuire a cambiare il campo di gioco».