
Paola non li ha mai visti prima eppure sa che li ha visti già; a decine ne ha incontrate di coppie così, uomini e donne che vanno a sposare invece che a sposarsi, dritti verso gli altari non perché ci sia una ragione per farlo, ma perché non riescono più a trovarne una per non farlo. In apparenza arrivano soli, ma dietro a loro si avverte in sottofondo il mormorio complice di un coro di madri e padri, di nonni e di nonne, di amici e di amiche già da tempo maritate, custodi feroci della convinzione che il compimento di sé, se esiste, sia una parola al plurale.
Paola quel vociare lo detesta con tutte le sue forze, eppure sa che senza quel rumore di fondo, senza il ritmo ipnotico di quella dolce marcia coercitiva, ogni corteo nuziale si fermerebbe prima, molto prima dell’altare.
Ventotene i cortei nuziali però non si fermano mai ed è lì che anche questa coppia mira a giungere, adorna di riso e fiori. Paola non ha mai capito cosa li attiri tutti a sposarsi in un’isola come quella, bella come lo sono solo le solitudini radicali, terra di confino senza riscatto. Forse dipende dal fatto che lei in fondo non è nata lì, ci lavora solamente; ma è facile dimenticarselo guardando il suo colorito d’ambra fatto di sole vero, senza le finzioni lampadate delle donne di città. Sono in molti a domandarsi perché una donna di trent’anni si accontenti di fotografare la felicità degli altri, ma Paola non la chiama felicità la marea che sospinge le persone sin lì come delfini spiaggiati senza rotta, pronti a giurare di amarsi anche quando non hanno alcun amore da giurarsi.
Guarda di nuovo la coppia alla ricerca di una crepa, l’annuncio segreto di un cedimento, ma i pensieri visibili dietro quelle unghie smaltate di fresco e quella camicia scartata da poco non sono promettenti. Qualunque cosa vedranno quei due nelle sue foto a fine giornata molto difficilmente li indurrà a cambiare idea. La scelta della donna Paola potrebbe persino avere la tentazione di capirla, perché non c’è modernità che salvi le bambine dal rischio di nascere già invitate al proprio matrimonio. Nessuno si premura di dir loro che la cerimonia le attende, perché non c’è bisogno di farlo; lo capiranno in fretta con i primi regali di compleanno, con Barbie Magnifica Sposina, con l’abito mini-nuziale della prima comunione, con le riviste di gossip che annunciano il matrimonio dell’anno di qualche attrice o calciatore, con i film e i romanzi dove per ognuna c’è la promessa di una passione per sempre, un amore così arrogante da poter andare davanti a un altare per sfidare Dio a chi ama di più. Lui però Paola lo capisce meno. Gli uomini sono verbi all’infinito presente, nulla li obbliga alla coniugazione. Forse per questo sono loro, nelle rare occasioni in cui il corteo si ferma prima dell’altare, a dire basta alla nenia di voci che ne ritma il passo.
Che a muoverli non possa essere l’amore non è in discussione per lei. Le è bastato il sorriso con cui le hanno detto «immortalaci come si deve» per capirlo. Immortale è l’aggettivo per gli amori eterni e immortalare è il verbo dei fotografi di matrimonio. Tutte e due i termini hanno dentro la parola morte e nessuno dei due ha dentro la parola amore. Forse è per questo che Paola l’amore di quei due non riesce a fotografarlo, come per molti altri che vengono a concordare il servizio per le nozze. Si è chiesta spesso se il problema in fondo non sia solo suo, di quel fottuto cinismo che le impedisce di far entrare nello scatto quello in cui non crede. L’alternativa è che non sia abbastanza brava, perché bisogna essere davvero capaci per cogliere la consistenza di qualcosa che tutti nominano solo per dire che non ce n’è abbastanza. Potrebbe essere, eppure Paola sente che stavolta non è così, che davvero in quella coppia di trentacinquenni diretti a sposare non c’è alcun bagliore reciproco che meriti di essere guardato due volte, meno che mai svegliarglisi accanto per il resto della vita.
Eppure questi due lo sanno perché sono venuti. Chi va da lei lo sa sempre: Paola Libralato fa servizi fotografici di matrimonio solo se le fanno fare da testimone. All’inizio i futuri sposi non la capivano quella strana richiesta. «Come sarebbe a dire? Il testimone a me lo fa mio fratello, mia sorella, il mio migliore amico...». Davanti a quelle obiezioni Paola ha sempre pensato che avesse ragione Virginia Woolf, che di nemici, non di amici, abbiamo bisogno in certi momenti, ma non si è mai presa la briga di spiegare agli aspiranti coniugi che il termine giusto per la figura che si metteranno accanto mentre avranno già il prete davanti non è “testimone”: chi accetta di far cose simili è già complice. Un testimone è una cosa diversa. Condivide i fatti, non necessariamente le intenzioni. Non importa quello che si spera: il testimone attesta solo quello che si vede.
Del resto, chi più di un fotografo può far da testimone? Non è un caso se il suo strumento si chiama obiettivo: obicere in latino vuol dire “porre davanti” ed è proprio quello che fa Paola, ma alle sue condizioni, che non sono dure. Facciamo una gita, dice, passiamo un giorno insieme. Prima di sposarvi venite con me a Ventotene. Fate una passeggiata, mangiate uno spaghetto alle vongole, godetevi la campagna, fate come se io non ci fossi, come se non stessi fotografando ogni istante, ogni sguardo, ogni momento che trascorrete insieme.
Dimenticatevi che non siete soli. Non dovrebbe essere difficile, dopotutto: siete innamorati, no? Gli altri non dovrebbero essere altro che sfondo, io più di tutti. Sorride mentre lo chiede e sa che sembra piccola la sua richiesta in apparenza, giusto una spiata concordata e preliminare, come se fosse una cosa da niente portarsi appresso un occhio estraneo mentre si cercano orizzonti da guardare insieme.
È alla fine della giornata che il peso del gioco si rivela per quello che era. È solo allora che Paola apre il suo soggiorno sul mare, mette davanti ai fidanzati dieci delle foto fatte durante la giornata, esce dalla stanza e li lascia soli. Non sono foto brutte, sono solo scatti presi di nascosto, senza pose, rubati nei momenti in cui entrambi si erano dimenticati di non essere soli. Il patto è chiaro e comodo: se dopo aver visto quelle dieci foto la coppia esce dalla stanza decisa a sposarsi lo stesso, Paola il servizio di matrimonio glielo fa gratis. È una sfida a cui pochi resistono, un po’ desiderosi di tirare al risparmio e un po’ presi dal gioco temerario di farsi rivelare il loro stesso spettacolo. «Dimmi che destino avrò», dice lo sciocco alla chiromante, e di sciocchi Paola ne ha visti davvero tanti in quegli anni. Il rischio che il sipario sollevato dall’obiettivo si apra su un’assenza reciproca non lo contemplano mai, eppure succede quasi sempre.
Cosa accada davvero dentro la stanza delle dieci foto Paola non lo sa, perché non è di quello che deve essere testimone, però le ricorda tutte le donne col mascara colato che sono venute fuori da quel piccolo salotto di verità in primo piano, e gli uomini, giovani e non più giovani, che ne sono usciti con le labbra strette e la fretta di andar via di chi ha fatto l’incontro sbagliato. Molti non si fanno più vivi e Paola non sa dire se si siano sposati comunque, magari affidando il servizio a un fotografo più compiacente. Sa solo che in cinque anni ha fotografato cinquantadue coppie, ne ha accompagnate all’altare sedici, ha incontrato un solo vero amore e purtroppo non è quello che ha davanti.
Sceglie gli scatti da mostrare a quei due con una cura ancora più attenta del solito. In una foto li ha fermati appoggiati al muretto di un belvedere mentre si scambiano un bacio furtivo a labbra strette sullo sfondo di Santo Stefano. In un’altra li ha sorpresi su una panchina, lei con gli occhi chiusi che si lasciava accarezzare i riccioli dalla mano distratta del fidanzato, lui che con l’altra navigava sullo smartphone in qualche lontanissimo altrove virtuale. In una li ha fotografati camminare in fila a troppa poca distanza per non essere insieme, ma con pose e sguardi che conservavano intatto in ciascuno di loro qualcosa di irrimediabilmente estraneo all’altro. C’è uno scatto dove lui parla con la cameriera del ristorante per fare le ordinazioni e lei, inconsapevole e sola nella sua verità interiore, lo guarda con un’espressione di incontrovertibile disprezzo. Quella foto farà male e Paola ha la tentazione di gettarla, invece alla fine è proprio per quello che la sceglie. Tutta la sequenza degli scatti ha qualcosa di violento, un’arma impropria e scorrevole sullo schermo digitale davanti ai divani dove i futuri sposi aspettano di sedere per illudersi di rivedersi.
Li fa entrare e si prepara a lasciarli soli per tutto il tempo che servirà. Posa la macchina fotografica sul tavolo e si affaccia alla finestra da dove ogni giorno fa colazione ammirando il mare, l’arroganza dei gabbiani e la foschia che in certe mattine regala al profilo dell’isola il fascino inviolato delle promesse ancora da deludere. A volte si chiede se verrà mai per lei un amore davanti al quale posare l’obiettivo e sorridere, per una volta soggetto e non progetto, complice e mai più testimone. Non lo attende, ma certe tempeste non vengono su invito e Paola quel fortunale non sa se sperarlo o temerlo. Magari una volta vorrebbe provare, ma soltanto una, quella che basta per sapere se è vero che la vertigine del turbine vale il prezzo delle macerie.
La porta della stanza alle sue spalle si apre d’improvviso e i due fidanzati ne escono insieme presi per mano. Mentre si volta per guardarli incontra in loro uno sguardo di sfida che glieli dichiara nemici senza resa.
«Ci sposiamo comunque», dice la donna parlando per entrambi. L’uomo al suo fianco le stringe la mano e le unghie di lei, lunghe e turgide, si affacciano come turchesi dall’intreccio delle loro dita. Comunque.
In quella parola Paola capisce che una verità là dentro c’è stata, ma che non è sulla verità che vengono prese certe decisioni. Nei loro occhi c’è un sentimento oscuro che lei spera non le capiti mai, perché non è la scelta di farsi l’uno destino per l’altro, ma il patto con cui hanno deciso di mantenere segreto il potere di farsi paura a vicenda.
«Se questa è la vostra decisione io vi fotograferò...», risponde con un sorriso che le pesa, prima di aggiungere con ironia: «...Comunque».