Campionatori e polifonie sarde. Ritmo ipnotico e testi da cantautore. E una voce che ricorda Lucio Battisti. Isonouncane, nuovo protagonista della scena musicale, presenta il nuovo disco. E racconta le sue radici

Comincia tutto con un battito, un ritmo che scandisce la vita, Poi si sentono le polifonie del canto a tenore sardo. E “Die”, che in sardo significa “giorno”: si intitola così il secondo album dell’artista sardo - trapiantato a Bologna - noto col nome d’arte “Iosonouncane”, al secolo Jacopo Incani. Lanciato da “La macarena su Roma” (2010), torna con un lavoro maturo, di ricerca, che riesce a unire musica elettronica e canzone d’autore.

Sale, mare, sole: sono le parole ricorrenti di questi brani che ricordano le spiagge degli anni ’60, come il timbro della voce di Iosonouncane a tratti ricorda Lucio Battisti. Ma il “sapore di sale” è ben diverso da quello di Gino Paoli. Perché dietro le spiagge c’è il Sulcis, da cui Jacopo Incani proviene: ci sono le montagne con le miniere, e dentro alle montagne ci sono i corpi di chi vi è rimasto seppellito. «Queste montagne le conosco, e mi ricordano che il mondo non inizia e finisce con me», spiega.
Il sole e il mare di “Die” non sono quelli balneari delle canzoni di una volta: c’è la crisi, il tormento di una generazione, la solitudine di un artista che scrive senza compromessi. «In ogni scrittura c’è un desiderio di rivalsa», dice Incani, che ha 32 anni e da 17 cerca di vivere di musica, mantenendosi con il lavoro nei call center Come racconta in questa intervista per “L’Espresso”.
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“Die” è un album molto diverso dal precedente.
«Il mio primo disco, “La macarena su Roma”, era figlio di una forzatura: desideravo suonare da quando avevo 15 anni e non ero ancora riuscito a farlo. Lavoravo in un call center, ed è un lavoro estremamente pesante. Inoltre, non avendo la patente, dovevo spostarmi in treno per fare concerti, e dovevo viaggiare leggero. Per questo il suono delle canzoni dipendeva dai mezzi che allora riuscivo a trasportare in viaggio: una loop machine e due campionatori».

Quando nasce Iosonouncane?
«A 19 anni mi sono trasferito a Bologna con la mia band del liceo: volevamo vivere di musica. Abbiamo suonato tanti anni facendo altri lavori. Finita quell’esperienza ho iniziato il mio progetto solista, e nel gennaio 2009 dal locale bolognese “Arterìa” mi hanno chiesto (con due soli giorni di preavviso) se potevo fare una sostituzione. Ho dovuto improvvisare completamente il concerto con delle basi elettroniche e la chitarra».

Da allora hai iniziato i concerti.
«A ottobre 2010 è uscito “La macarena su Roma”, e fino all’autunno 2012 non mi sono più fermato. Ho suonato in appartamenti privati, per strada, ai festival letterari, spesso gratis. A Scandicci, vicino Firenze, in un piccolo locale mentre suonavo eravamo in tre: io, il proprietario e la barista. Un’ora e mezza di concerto “a fogu” (di fuoco n.d.r.)».

Tre anni di tour sono tanti...
«È stata una tournée lunghissima, esasperante. Alcuni mesi facevo addirittura 13 o 14 date. Per un totale di 250 concerti in tre anni e mezzo: e intanto continuavo a lavorare nel call center! Finito il tour ho sentito la necessità di fermarmi, avevo solo voglia di vedere film, leggere, passeggiare».

Ora esce “Die”: un disco da cantautore, nonostante le influenze elettroniche.
«È un album decisamente fuori moda. Non somiglia a niente in circolazione, e lo sento più mio rispetto al precedente, perché ho potuto fare delle scelte precise. Mi servono i fiati? Bene, mi indebito e pago una sezione fiati vera anziché inciderne una elettronica».

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Sono passati cinque anni dal primo disco: vivi con difficoltà il momento creativo?
«Ho un metodo di scrittura tormentato, in effetti non lo faccio con serenità. Ho una cura dei dettagli ossessiva, scarto tantissimo materiale che non considero funzionale al disco. E ho lavorato un anno intero alla scrittura. Quando ho capito che avevo bisogno di un “timoniere” l’ho trovato in Bruno Germano, che ha coprodotto “Die”. Solo il mixaggio ha richiesto 30 giorni, mentre mediamente lo si fa in 5 o 10 giorni».

E come hai fatto a mantenerti in questo lungo periodo?
«Sono tornato in Sardegna per un anno, dopo 12 anni fuori. Ho dato una mano alla vigna di mio zio: la mattina lavoravo in campagna e il pomeriggio al disco. La sera tornavo a casa con la busta di ortaggi, la bottiglia di olio e di vino».

Hai pensato che un disco così diverso dal precedente avrebbe potuto essere accolto negativamente dal pubblico?
«Mi sono confrontato coi ragazzi dell’etichetta Trovarobato, con la mia ragazza, mia madre, mia sorella. Avevo una certezza: un lavoro così meticoloso sarebbe stato ripagato. Come accadde con “Wow” dei Verdena, nel 2011. Perché nella maggior parte dei casi, oggi, il mondo culturale italiano si accontenta di risultati mediocri».

In questo album non parli di attualità, né di politica.
«Non mi sono posto il problema dell’Italia di oggi. Il bisogno di attualità in questo paese è malsano: ha portato la produzione culturale a diventare schiava della cronaca. Ma è triste vedere i musicisti schiavi di un lessico calato dall’alto. Il tuo punto di vista è innocuo se scrivi cose che puoi trovare in un qualsiasi commento di youtube. In “Die” c’è un lavoro approfondito sul linguaggio».

È una prospettiva ambiziosa.
«Se un maestro d’ascia vuole costruire una barca di 80 metri deve essere ambizioso, o colerà a picco. È la condizione necessaria, la spinta a superare un nuovo giorno. E poi, è la cosa più divertente di un processo creativo, perché ti porta in terreni non battuti. Un marinaio va in alto mare: chi si muove in gommone a 20 metri dalla costa è solo un turista».

Di mare, di terra, di natura si parla molto nei tuoi testi. È il mondo da cui vieni?
«Sono nato a Buggerru, fra le montagne davanti al mare. Vengo da una famiglia di pescatori e minatori, persone che lavoravano sotto la terra e riemergevano solo a fine giornata. La mia infanzia è stata segnata da lunghe distanze, partenze, ritorni, fatti tragici. È il mio dizionario intimo, il bagaglio che mi porto appresso anche in mezzo ai palazzi e quando sono fermo al semaforo».

Si sente anche una ricerca letteraria.
«Ho letto Pavese, Steinbeck, Camus, e i sardi Giuseppe Dessì, Sebastiano Satta, Grazia Deledda, Gavino Ledda. E il più importante: Manlio Massole, un poeta di Buggerru che ha 86 anni. È stato maestro di scuola fino al ’72, insegnava a mio padre, e si licenziò per lavorare in miniera. Ha scritto cose meravigliose, come le raccolte di poesie “Risacca” del 1968 e “Betgher: il lungo dolore”, nel ’76. Con lui ho parlato a lungo».

Hai detto più volte che farai musica unicamente alle tue condizioni. Quali?
«La mia linea guida è semplice: non fare cose che ti imbarazzano. Compromessi mai, sono stato educato così. Sono più le collaborazioni che ho rifiutato di quelle che ho fatto, mi hanno anche proposto un talent show. Ma non mi interessa avere 50mila spettatori in più. Io sto cercando di costrurmi, piano piano, un’autorevolezza».