Battute memorabili. Capolavori in equilibrio tra farsa e tragedia, crudeltà e divertimento, malinconia e ironia. Un grande del cinema mondiale nel ricordo di un amico regista

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Un pomeriggio di qualche anno fa Ettore Scola mi avrebbe spiegato che ci sono due modi per smettere di fare il regista, e che questi due modi corrispondono a due concezioni del mondo. C’è chi preferisce essere artefice del proprio ritiro, e chi, invece, è condannato a subirlo. Chi deve farselo notificare dagli altri, dal produttore che non ti da mai una risposta, dal funzionario che ti lascia in anticamera per un’eternità, e chi invece se lo dice da solo che è finita, il regista che si alza una mattina con la consapevolezza che il ciclo della creatività è arrivato al capolinea, e che dunque è il caso di smettere di annotare su un taccuino le idee per un film, inutile affannarsi a scrivere una sceneggiatura, o incontrare un attore per destinargli un ruolo.

Ettore apparteneva alla seconda categoria, aveva preso da anni la decisione fatale, e lo aveva fatto con quella eleganza lucidamente malinconica che ne contrassegnava il passo. Era uno dei grandissimi del cinema mondiale, Ettore Scola, e ci ha lasciato a 84 anni, dopo aver dato al pubblico un ultimo cenno di saluto, quel film, “Che strano chiamarsi Federico”, immaginato con l’aiuto affettuoso delle figlie Silvia e Paola e della compagna di una vita Gigliola, sul suo rapporto con Federico Fellini, sul periodo del “Marc’Aurelio”, sull’iniziazione alla professione, il periodo delle sue frequentazioni con Maccari e Steno, Age e Scarpelli, sua ultima missiva prima del definitivo congedo dalla vita, e, dunque, dal cinema.
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Se gli chiedevi come trascorreva la sua giornata, Ettore ti rispondeva tranquillo: «leggo, anzi rileggo, e mi occupo dei miei nipoti». Per lui vengono in mente le parole della fine del “Simposio” di Platone, pronunciate da Socrate: commedie e tragedie non dovrebbero essere scritte da autori differenti.
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La voce di Scola era riuscita a fare quella sintesi apparentemente impossibile, declinare la leggerezza della commedia con la profondità della tragedia. Il suo cinema ha saputo dirci molte cose sulla nostra vita. E lo ha fatto senza stabilire un confine netto tra crudeltà e divertimento, tra farsa e tragedia, tra malinconia e ironia. Basterebbe rivedere “C’eravamo tanto amati” (1974), un titolo che ormai corrisponde a uno dei refrain della nostra esistenza, per misurare la grandezza di questo regista, la sua capacità di scaldare il cuore con i grandi temi della vita - la scelta, la disillusione, l’amore, l’impegno - distillati lungo trent’anni di storia italiana, dal 1945 al 1975, attraverso le vicende di tre amici interpretati da Vittorio Gassman, Nino Manfredi e Stefano Satta Flores, tutti innamorati di Luciana (Stefania Sandrelli), personaggi meravigliosamente umani, di cui restano battute memorabili come questa sulla virtù: «Negli onesti c’è quella purezza che se gli capita l’occasione diventano più mascalzoni dei mascalzoni veri».

Un altro degli affreschi geniali che Scola ci ha lasciato è “La terrazza” (1980), un film dove ancora una volta questo immenso regista e scrittore di cinema cerca di agguantare il gusto della vita che fugge, la sua promessa di pienezza. Un film sugli intellettuali, sullo spreco, sulla disillusione. «Volevo che fosse la commedia per eccellenza, la commedia sulla commedia, la commedia autocritica degli autori della commedia, di una generazione di intellettuali romani», avrà poi modo di dire. In ogni film, da “Brutti sporchi e cattivi” per il quale vinse nel 1976 il Gran Premio a Cannes, a “Una giornata particolare” (1977), a “La famiglia” (1987), a “Ballando ballando” (1983), la commedia di Scola, si fa solenne malinconia, esperienza del dolore dell’uomo contemporaneo, o riflessione sulla Storia, come in “Il mondo nuovo” (1982) o “Concorrenza sleale” (2001).

La sua opera è una ininterrotta conversazione sul carattere degli italiani, dalla esperienza della guerra alla speranza intravista e solo vagheggiata del dopoguerra, alla corruzione dei decenni a venire, contrassegnati da quella disinvoltura morale con cui Scola caratterizzerà il tono di alcuni dei suoi indimenticabili protagonisti. Regista incline al sodalizio con gli attori prediletti, Gassman e Mastroianni, Fanny Ardant e la Sandrelli, Ettore Scola è stato anche un modello di intellettuale. Amava i riti e le occasioni della politica e alla militanza ha voluto dedicare, con costanza e intelligenza, molta passione e tempo. Era un membro influente del Partito Comunista Italiano, e per tanti anni ne è stato anche, nel mondo della cultura e del cinema, il più autorevole messaggero. Era gentile e affilato, colto e malinconico. Non amava l’enfasi e la solennità degli autori che si prendono sul serio.

Negli ultimi tempi ho avuto la gioia di frequentarlo molto e posso osare di dire che si fosse instaurata tra noi una certa amicizia, da parte mia vissuta con pudore e devozione. Mi aveva commosso il modo con cui si dedicava al comune amico Francesco Rosi, e negli ultimi tempi eravamo soliti scambiarci delle telefonate per comunicarci le impressioni sul suo stato di salute. Era spiritoso e molto generoso. Un giorno mi ha chiamato chiedendomi di passare da lui, allo studio, nel pomeriggio. Quando l’ho raggiunto, mi ha fissato con quell’intensità affettuosa che era la sigla del suo sguardo, poi ha estratto da un cassetto una sceneggiatura e me l’ha consegnata. «Vorrei che leggessi questa sceneggiatura, mi farebbe piacere, se ne hai voglia, che facessi questo film. L’ho scritta anni fa, avevo anche cominciato a preparare il film, poi ci ho tolto mano. Ma mi farebbe piacere che qualcuno prima o poi lo facesse, e ho pensato a te».

Era la storia bellissima, di un padre, libraio, e di una figlia, del loro segreto. Inutile dire quanto fossi commosso da quel pensiero. Inutile dire che me lo porterò dietro come una gratificazione che vale mille premi. Come un talismano.