Altro che Uffizi. Per far soldi col museo copiate il Victoria&Albert
Era stato ideato per gli artigiani. Oggi offre le mostre più trendy di Londra. Ha più visitatori di Pompei. Miete soldi dai privati e fa scuola anche in Cina
Un libro con le pagine sempre aperte. Così Henry Cole, il primo a dirigere quella meravigliosa creatura che è oggi il Victoria&Albert Museum di Londra, descriveva la nuova istituzione all’indomani dell’Esposizione Universale del 1851. La regina Vittoria e il principe consorte Alberto volevano un luogo che esprimesse la lungimiranza dell’impero britannico, mostrando le vette delle arti applicate dalle civiltà antiche alla rivoluzione industriale, e al tempo stesso fornisse exempla ad artisti e artigiani. [[ge:rep-locali:espresso:285237659]] A quasi due secoli da quando la monarca inaugurò il palazzo di South Kensington, più che a un libro lo si può paragonare a uno scrigno delle meraviglie, un’istituzione capace di dare lezioni al resto del mondo, Italia compresa. Nel 2015, quadruplicando le cifre di 15 anni fa, ha raggiunto il record di visitatori: 3 milioni e 300mila. Per dare un’idea, un numero più alto degli Uffizi di Firenze (1 milione 971mila visitatori nello stesso periodo) e degli scavi di Pompei (poco più di 2 milioni 900 mila ingressi). Ha vinto l’Art Fund Prize for Museum of the Year, un premio da 100mila sterline che viene assegnato ogni anno al migliore museo britannico. Ma soprattutto è un modello gestionale e creativo a cui guardare, in tempi di Brexit, con invidia e desiderio di emulazione.
Le sue collezioni sono un inventario della creatività umana il cui elenco sarebbe piaciuto a Umberto Eco. L’archivio fotografico, dai ritratti ottocenteschi della pioniera Julia Margaret Cameron alle valchirie seminude di Helmut Newton, è tra i più ricchi del pianeta. La grandiosa collezione d’abiti e accessori spazia dai vestiti con crinolina delle corti italiane del ’700 ai cappelli pazzi di Philip Treacy. Nelle gallerie dedicate al Medioevo, la terracotta dei Della Robbia fronteggia i marmi di Giuliano da Sangallo.
Passeggiando tra le vetrate policrome provenienti dalle cattedrali di mezza Europa si incontrano reliquiari spagnoli, servizi d’argenteria rinascimentale italiana, candelabri ebraici medievali. La stanza dei gioielli è illuminata dai bagliori di tremila pezzi incredibili, dalla gorgiera d’oro irlandese dell’800 a.C ai pendenti della corte di Elisabetta I, dai diamanti di Caterina la Grande agli smeraldi appartenuti a Napoleone. Poi c’è la pittura, con le meravigliose vedute campestri di John Constable, alcuni Turner da capogiro, i cartoni di Raffaello per gli arazzi della cappella Sistina. E ancora, in una vertigine da 2 milioni e 300mila oggetti censiti e conservati tra le sue mura, l’arte del vicino e lontano Oriente: codici miniati arabi, porcellane cinesi, preziosissimi tappeti persiani.
Ma le collezioni da sole non basterebbero a fare del V&A quello che è oggi: una realtà di grande reputazione che è però anche un luogo alla moda e al tempo stesso un laboratorio per sperimentare che cosa, in futuro, vorrà dire progettare, sostenere, far crescere un museo. Nell’ultimo decennio il suo patrimonio è diventato la base per tentare strade nuove con il costume e la musica. Portando a Londra “The Glamour of Italian Fashion”, sulla moda italiana dal Dopoguerra a oggi, attirando mezzo milione di persone con la mostra proveniente dal Met di New York “Savage beauty”, dedicata ad Alexander McQueen, e mandando in giro per il mondo “David Bowie” (ora al Mambo di Bologna). Merito di risorse pubbliche a pioggia? No, esito dei tagli del governo britannico alla cultura. E di un nuovo approccio che sta dando frutti insperati.
IL MIRACOLO DEI FINANZIAMENTI
« Se penso al periodo in cui eravamo interamente finanziati dal governo, dai soffitti gocciolava la pioggia e le stanze erano terribilmente mal illuminate. Tutto era polveroso ». Così Paul Ruddock, per anni a capo del board che guida il Victoria & Albert, commenta il cambiamento radicale dell’ultimo decennio. Una metamorfosi dovuta, al contrario di quel che si potrebbe supporre, non a un aumento di risorse statali ma alla loro drastica riduzione. Come spiega il direttore finanziario Tim Reeve, «dal 2010 in poi le placche tettoniche del finanziamento pubblico per le istituzioni culturali britanniche hanno avuto un sommovimento drammatico, con una riduzione del 15 per cento per i musei nazionali». Facendo i conti sul Victoria&Albert vuol dire passare da 44 milioni a 37 milioni di sterline di erogazioni statali. Una perdita notevole per un museo a entrata gratuita (solo le mostre sono a pagamento) che ci tiene a rimanere tale.
Nel frattempo però il fundraising si è impennato, raggiungendo nel 2015 la cifra record di 25 milioni di sterline. Grazie alle donazioni dei privati e delle fondazioni sono state ristrutturate il 75 per cento delle gallerie di South Kensington. «Comunque si scelga di misurarne il successo, i musei londinesi non solo sono sopravvissuti ma prosperano: cifre record di ingressi, mostre favolose che fanno scuola, acquisizioni importanti, ottimi programmi di ricerca, nuove sedi espositive. I punteggi di TripAdvisor crescono e così anche il turismo», chiosa Reeve, e aggiunge: «Sembra controintuitivo, e in effetti non possiamo sapere quali sono gli effetti negativi a lungo termine. Ma organizzazioni come la nostra a volte hanno bisogno di essere spinte con fermezza verso una visione più moderna e efficiente. Si è visto che molti di noi potevano fare un po’ più fatica di quel che pensavano e lavorare meglio in alcune aree. Però non voglio dirlo troppo a voce alta, sennò il governo penserà di poterci somministrare la stessa medicina un’altra volta».
Per finanziarsi il museo non si limita a ricevere donazioni ma propone corsi per il pubblico con docenti ed esperti - dall’architettura alla ceramica, dalla pittura alla storia dei giardini - e una membership annuale (la “standard” costa 64 sterline, quella da “contributing member” arriva a 300) che permette non solo di visitare gratuitamente le mostre ma anche di accedere a un ricco programma di eventi. Per farsi un’idea basta sfogliare il magazine che il V&A pubblica tre volte l’anno: si va dagli editoriali dei curatori all’elenco dettagliato di visite guidate, incontri con autori celebri e sfilate di moda cui la membership dà diritto a partecipare. Negli ultimi mesi, tra gli altri, una serata con la stilista Donna Karan, una visita alla sede centrale del marchio di design Vitra e un reading della famosa scrittrice Antonia S. Byatt. Perché lo scopo è fare del V&A una sorta di brand della cultura di alto livello, in cui la parola museo non evochi più soltanto la visita faticosa a un’infilata di stanze piene di opere sotto teca.
FARE DELLA VISITA UN'ESPERIENZA TOTALE
Carta da parati rosso pompeiano e pitture di paesaggio nel corridoio. In anticamera, il bricco del t è fumante. Non c’è nulla di più classicamente londinese di una visita mattutina all’ufficio dell’architetto David Bickle, director of Design, Exhibition and Future Plans, ai piani alti del Victoria&Albert. Ma la visione di Mr. Bickle non ha nulla di classico. Anzi, è roba da rivoluzione gentile. Lo mette in chiaro da subito: «Pop culture per me significa “popular culture”. Ovvero, cultura per tutti. Lo scopo qui è coinvolgere il visitatore, farlo sentire parte di una conversazione e cercare nuovi linguaggi. Guardare al passato per parlare del futuro. E farlo mantenendo un alto profilo accademico e una selezione rigorosa dei progetti che abbracciamo». Il che vuol dire moltissimo. «Coinvolgere nuove fasce di pubblico, come ad esempio i giovani maschi, e proporre a chi già ci frequenta cose nuove. Lo facciamo con una ricca Engineering Season, che include una mostra sull’ingegnere Ove Arup, o con iniziative come il “Friday Late”: il museo aperto fino a tardi il venerdì, e una “party athmosphere” che porta qui chi non ci conosce ancora. Partiamo da una constatazione: in passato visitare un museo è stata un’esperienza impegnativa. Noi rovesciamo lo schema. Siamo al centro di una metropoli con milioni di abitanti. Vogliamo che ci sia spazio per tutti. Per chi non ha molto denaro e può entrare gratuitamente. Per chi ha bisogno di un momento di riflessione e silenzio. Per chi vuole fermarsi a bere o mangiare qualcosa e usare i nostri spazi per lavorare con il suo laptop».
Fuori c’è South Kensington, ricco quartiere residenziale oggi colonizzato da boutique e ristoranti per una clientela araba di ricchissimi. I visitatori del V&A arrivano da tutto il mondo e da tutta Londra, ma certo da queste finestre le periferie sembrano remotissime. «Il masterplan East London ha lo scopo di coinvolgere una fetta di popolazione che non ha solitamente accesso a questo tipo di esperienza», sottolinea Bickle introducendo uno dei progetti più ambiziosi dei prossimi anni, il “raddoppio” del V&A nella zona del Queen Elizabeth Olympic Park. «Sarà uno spazio nuovo, creato coinvolgendo la University of East London, il London College of Fashion e lo Smithsonian Institute di Washington. La sfida è creare eventi che diano risposte ai grandi interrogativi dell’attualità. E insieme collocare le opere attualmente in magazzino. Siamo nel XXI secolo: cosa succede se questi oggetti li “tagghiamo”, con l’internet delle cose, in modo che possano parlarci e “parlarsi”? Cosa succede se possiamo farne un modello 3D? Le potenzialità sono infinite».
Per non parlare delle possibilità che si aprono con gli altri “spin-off”: il V&A Museum of Design di Dundee, in Scozia, disegnato da Kengo Kuma, in via di costruzione. E la consulenza alla compagnia China Merchants Shekou per la creazione di un museo a Shenzen: un’iniziativa di trasmissione di know how guidata da un’italiana, Luisa Mengoni, replicabile altrove. Mentre si versa il tè, l’architetto di successo convertito alla museografia quasi mormora: «Abbiamo inaugurato ora “Opus Anglicanum: Masterpieces of English Medieval Embroidery”. E accanto abbiamo la mostra sugli anni Sessanta, “You Say You Want a Revolution”. Sembra che non ci sia nulla di più distante. Ma ciò che oggi è classico è stato la cultura popolare di un’altra epoca».