Il compositore italiano porta a casa la statuetta per le musiche di 'The Hateful Eight'. Di Caprio miglior attore protagonista per 'The Revenant' di Inarritu. Il premio per il miglior film alla pellicola che racconta lo scandalo dei preti pedofili svelato da 'The Boston Globe'

Passerà alla storia questo Oscar 2016 perché finalmente Leonardo Di Caprio ha in mano questa benedetta statuetta. E soprattutto perché persino Di Caprio avrà capito che per vincere un Oscar bisogna fare un film da Oscar. E Alejandro Gonzales Inarritu li confeziona perfetti, con tutti i pezzetti a posto come i mobili della Ikea.  Perché nel cinema esistono i film e i film da Oscar che possono essere belli o brutti ma hanno precisi paradigma: storie forti, grandi star, grandi emozioni, rullo di tamburi, grande schermo/messa in scena, forza produttiva e quel tanto di popolarità necessaria a non far faticare troppo il pubblico. 

Non si vince l’Oscar con un film radicale, troppo innovativo o minimalista. Alejandro Gonzales Inarritu di minimalista non ha neanche lo smoking (vedi ottocentesco fiocco/ papillon di raso nero). Quindi non stupisce che vada  a lui la miglior stupefacente virtuosistica regia per “The Revenant” e a Leo la  miglior stupefacente virtuosistica interpretazione. Sebbene sia anni luce lontana dalla perfezione di un Jordan Belfort  del “Lupo di  Wall Street” di Scorsese o dal cattivo Monsieur Calvin del “Django” di Tarantino. Ma Scorsese ( che di Oscar ne ha vinto uno solo in tutta la vita con “Departed”) e Tarantino (che ha vinto solo come sceneggiatore e mai come regista, bah!) per quanto siano due autori di genio, due capisaldi della storia del cinema  e capitoli di futuri sussidiari, non fanno film da Oscar. Troppo sofisticato uno, troppo rivoluzionario l’altro. Di Caprio l’ha capito e ha puntato tutto sull’effetto speciale. Il suo. Quel muscolare impegno e la tenace resistenza al freddo gli avrebbe potuto far vincere anche “Giochi senza frontiere”. Ma l’Oscar è meglio.
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La domanda a questo punto è:  “Spotlight”  il miglior film 2016, che ha vinto riscattando l’intera e globale categoria di giornali e giornalisti in crisi,  è un film da Oscar? La storia forte, il buon cast, la regia incalzante e quel tanto di impegno civile che un Academy  dei nostri tempi turbolenti non può ignorare direbbero di sì. Eppure è un film che appiattisce i personaggi come un mosaico bizantino  e non ci racconta quasi niente della vita  privata dei reporter o delle vittime.
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Teso sulla storia e sul meccanismo dell’indagine con un piglio più documentaristico che romanzato, non obbedisce  in questo alla tradizione di “vero film da Oscar” che ci avrebbe raccontato tutto di moglie  e figli di Michael Keaton, inondato di flash back di  cupi collegi e preti inquietanti e costretto a seguire amare e identificarsi con le turbolenze emotive di un personaggio su tutti gli altri. Ma l’Oscar a “Spotlight”  che vince anche la miglior sceneggiatura originale mentre quella non originale va a “La grande scommessa (potente film sulle truffe della finanza) è anche dimostrazione della forza crescente del documentario nel mondo della grande fiction. Approfittiamo qui per un evviva all’Orso d’oro a “Fuocammare” e al nostro grande Gianfranco Rosi.
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Giunti all’orgoglio patrio non possiamo che esultare per l’Oscar a Ennio Morricone  per la musica in  “The Hateful Eight” di Quentin Tarantino. Il grande escluso da questa competizione, che avrebbe certo meritato molto di più. Perlomeno una nomination al meraviglioso Samuel Jackson o una statuetta alla straordinaria Jennifer Jason Leigh. Consoliamoci col pensare che l’Oscar a Morricone è anche l’Oscar all’intera poetica di Tarantino, al suo amore per Sergio Leone e per il cinema italiano ( quello di serie B, però, che non ha mai vinto un Oscar).

Ma il rimpianto per non aver visto la tumefatta, feroce, “ottava odiosa” Daisy salire sul palco è compensato dalla soddisfazione al mancato Oscar a Rooney Mara di “Carol”  ficcata a forza nella categoria attrice non protagonista proprio per vincere a mani basse. Bene. C’è giustizia nell’Academy e il premio è  giustamente andato a Alicia  Vikander per l’amour coniugal che l’accompagna in tutto “The Danish Girl” accanto a un marito problematico e con turbe identitarie che le ruba i vestiti dall’armadio.

L’amor materno invece fa guadagnare un meritatissimo Oscar miglior attrice protagonista a Brie Larson per “Room”.  Film potente con la storia più forte dell’intera edizione e una interpretazione  che passa dal coraggio e forza della disperazione alla fragilità che segue un trauma. Il tutto in un claustrofobico film che per metà è pura suspense per l’altra metà un dramma d’interni. Ma nell’uno e nell’altro caso non si esce dalle mura di casa, né dal volto intenso di Brie Larson.
 
Alla grande scuola inglese va il premio non protagonista maschile. Mark Rylance, attore, regista, drammaturgo britannico e grande interprete shakespeariano che usa tutto il suo sapere per costruire il profilo dell’agente del KGB Rudolf Abel, nascosto negli abiti lisi di un modesto pittore di innocua apparenza nel “Ponte delle spie” di Steven Spielberg.

Se questi sono i premiati chi sono gli sconfitti? Sicuramente “Carol” di uno stanco Todd Haynes e il bel “The Martian” di  un ritrovato Ridley Scott .  Per entrambi, tante nomination per nulla. Forse anche da “Mad Max”nonostante una valanga di premi tecnici ci si sarebbe aspettato di più. Sconfitto è  di sicuro “Anomalisa” il film di animazione più innovativo stracciato da “Inside out”: ma è difficile vincere un Oscar facendo fare sesso ai protagonisti animati. Anche “Mustang” meritava la statuetta come miglior film straniero se “Il figlio di Saul” non fosse stato costruito come film da Oscar (anche troppo) con messa scena a effetto, storia da brividi e sfondo Olocausto. 
 
E infine il vero sconfitto è Michael Fassbender, strepitoso “Steve Jobs” in un film probabilmente troppo sofisticato per l’Academy , schiacciato da un immeritato  premio riparatore a Di Caprio che di Oscar ne avrebbe meritati dieci solo per il “Lupo”. Tutt’altra storia che l’Orso di “Revenant”.