Erano vent'anni che si parlava dell'esistenza di questo corpus scoperto da un rivenditore di libri usati. Migliaia di pagine, lettere, documenti, disegni, foto. Ma soprattutto le registrazioni e i testi rielaborati delle canzoni. Il tutto acquistato dalla George Kaiser Family Foundation e dall’Università di Tulsa, dove questo materiale verrà conservato fino alla fine dei tempi

Già lo chiamano il “Santo Graal” della galassia Dylan: migliaia e migliaia di pagine con le annotazioni, le lettere, i documenti, i disegni, le registrazioni, le foto e, soprattutto, i testi – ricorretti anche decine e decine di volte, aggiustati, ripensati o rielaborati – di canzoni che da tre o quattro generazioni hanno contribuito a modellare l’immaginario e la cultura dell’Occidente.

Il “Falcone Maltese” dei dylaniati, l’oggetto dei desideri sommi dei dylanologi, lo scrigno dei tesori dei milioni di appassionati sparsi ai quattro angoli del mondo: sì, l’archivio segreto di Bob Dylan. Roba da stropicciarsi gli occhi. C’è, per esempio, l’appunto originario di “Ballad of A Thin Man”, solo che qui al celeberrimo verso “tu non sai quello che sta accadendo”  manca l’altrettanto celebre conclusione: “Vero, mister Jones?”. Oppure tutte e quaranta le versioni di “Dignity”, che il nostro scrisse per l’album “Oh Mercy” per poi decidere di epurarla dal disco (peccato che sia diventata una di quelle “perle perdute” alla fine assurte all’Olimpo del corpus dylaniano).
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E ancora, tra le migliaia: una delle prime versioni di “Visions of Johanna”, o quella rudemente battuta a macchina di “Subterranean Homesick Blues” e, soprattutto, il quadernino rosso e nero che contiene tutti i primi versi dell’intero album “Blood on The Tracks”, considerato uno dei massimi capolavori del nostro, ineguagliata vetta di dolore e poesia. Un po’ come si fossero ritrovati gli appunti di Borges, o la “brutta” dell’”Ulisse” di Joyce, o i manoscritti originali di tutti i libri di Tolstoj.

Ebbene sì, l’archivio segreto. Finora immaginato, ipotizzato, sempre vagheggiato ma mai visto da occhio umano. Materiale di ogni genere e specie accumulato nei decenni da “mr. Tamburino” e dai suoi collaboratori, in qualche modo intercettato da un rivenditore di libri rari e ora acquistato da una ricchissima fondazione di Tulsa, Oklahoma, insieme al locale ateneo. I quali, per accaparrarsi l’ambitissimo malloppo, hanno sborsato una cifra stimata tra i 15 e i 20 milioni di dollari.

Era da almeno vent’anni che tra gli esperti e gli appassionati circolavano le più selvagge speculazioni sull’esistenza dell’archivio. Una specie di tesoro nascosto che avrebbe permesso di comprendere a fondo i recessi più segreti del lavoro di uno degli artisti più complessi e citati degli ultimi cinquant’anni. Una personalità tanto profondamente radicata nella cultura contemporanea da venire ogni anno, immancabilmente, candidata al premio Nobel per la letteratura, con varie, inutili, polemiche annesse.

Ora lo scrigno è venuto alla luce: seimila pagine manoscritte, ma anche film, video, fotografie, schizzi (il nostro è, come si sa, anche un apprezzato pittore), registrazioni in studio e dal vivo finora mai ascoltate fuori dalla cerchia più ristretta del signor Dylan. Il tutto acquistato dalla George Kaiser Family Foundation e dall’Università da Tulsa, dove tutto questo materiale verrà conservato supponibilmente fino alla fine dei tempi.

E’ stato un reporter del New York Times, Ben Sisario, a rivelare la “scoperta” e la vendita dell’archivio. Ma, soprattutto, a visionare il materiale. Tanto da fargli scrivere che “gli archivi sono più vasti di quanto anche i più esperti della materia Dylan potessero immaginare”, mentre lo storico Sean Wilentz, autore di “Bob Dylan in America”, non esita a dire che “è l’inizio di un nuovo modo di studiare Dylan”.

Il “menestrello di Duluth” stesso ha reagito con la sua abituale e sottile ironia: “Sono felice che le mie carte vengano esposte insieme al lavoro di Woody Guthrie e soprattutto insieme ai preziosi manufatti dei nativi americani: la cosa per me ha molto senso, ed è un grande onore”. Eh sì, perché dopo alcuni anni che saranno necessari per la digitalizzazione del materiale, questo verrà conservato insieme ad una rara copia della Dichiarazione d’Indipendenza americana e una collezione d’arte di nativi americani nel museo che la città di Tulsa ha dedicato a Guthrie, il “papà” di tutti i folksinger americani venerato da Bob sin da quand’era ragazzo nonché originario, guarda caso, di quella città dell’Oklahoma. Un cerchio che si chiude, insomma.

E’ stato nel settembre del 2014 che il commerciante di libri rari Glenn Horowitz contattò la Kaiser Foundation, affermando di avere tra le mani un affare “di importanza globale”. Frase più che sensata, considerando che poco prima un foglietto con la prima versione di “Like a Rolling Stone” era stato battuto all’asta per la bellezza di oltre due milioni di dollari. Gli esperti della fondazione, sapendo che Horowitz aveva già trattato gli archivi di Norman Mailer e John Updike, si dissero: “O si tratta dei Beatles o di Dylan”. Fuoco, fuocherello.

La sensazionalità della scoperta deriva anche dall’estrema riservatezza di Dylan. Un uomo indefessamente dedito al lavoro, se si pensa alla quantità industriale di riscritture, correzione e nuove versioni dei suoi lavori. E’ come guardare negli angoli segreti di una creazione artistica tra le più rappresentative della nostra epoca, che talvolta si materializza sotto forma di carta da lettera di alberghi, come la “Chimes of Freedom” scritta su un foglio intestato “Waldorf Astoria”, talaltra sotto forma di un libriccino fitto di una scritta minuta, caotica, in cui le parole si accavallano l’una sull’altra. Idem il manoscritto del primo libro di Dylan, l’onirico “Tarantula” che viene ancora oggi considerato uno degli oggetti più misteriosi realizzati dalla mente del poeta e cantautore americano.

Ovviamente non finisce qui. Tra le carte più curiose, una lettera di Barbra Streisand del novembre 1978, in cui la grande cantante ringrazia il notoriamente schivo Bob di averle inviato dei fiori ed in più lo supplica di poter realizzare un disco insieme a lui: “Non vi sono prove di una sua risposta”, annota con divertita freddezza il New York Times. In mezzo agli altri gioiellini che danno il colore e l’odore di un’epoca – gli anni sessanta – irripetibile, un telegramma di Dennis Hopper e di Peter Fonda a proposito dell’utilizzo della canzone “It’s Alright Ma’ (I’m Only Bleeding)” per il film-culto “Easy Rider”, nonché la giacca di pelle indossata da Dylan al festival di Newport del 1965 (sì, quello della famigerata “svolta elettrica”). Ma anche, una piccola agenda con i numeri di telefono di colleghi come l’amico Johnny Cash e il biglietto da visita del grande soulman Otis Redding. Piccoli oggetti che “umanizzano” l’autore di “Blowing in The Wind”, scrive il New York Times, anche se “l’uomo Dylan, alla fine, rimane comunque un enigma”. Com’è giusto che sia.