Nel nostro tempo, le notizie si accavallano e si coprono l’una con l’altra.  Così scorderemo presto i due amici che hanno massacrato un essere umano senza nemmeno odiarlo. Una scrittrice ripercorre l’omicidio del Collatino

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Lo ricorderemo ancora tra quarant’anni? Per quanto tempo il delitto del Collatino occuperà la nostra immaginazione, sarà esemplare e inconsciamente deterrente per comportamenti di colpo interpretabili come pericolosi? Smetteremo di drogarci, fare sesso occasionale, rispondere a sms che ci invitano in case sconosciute? Per quanto tempo, una settimana, un mese, un anno? Sono passati quarant’anni e se scrivo “delitto del Circeo” capiscono tutti: è quello lì, 29 settembre 1975.

È stato un choc e poi un’ossessione collettiva. Abbiamo avuto paura, ci siamo interrogati, ci sono stati film, libri, interviste, ci ricordiamo persino i nomi degli assassini, e delle vittime. Edoardo Albinati, che ha frequentato lo stesso liceo di Izzo, Ghira e Guido, il San Leone Magno di Roma, intorno a quella storia ha costruito il suo ultimo, bellissimo, libro: “La scuola cattolica”. Che cos’è un uomo, si chiede Albinati, come si forma il suo immaginario, la sua relazione col femminile, come tiene a freno la violenza, come si confronta con l’omosessualità? La stessa domanda funziona benissimo anche per questo nuovo, inspiegabile e orrorifico delitto. Gli elementi sono gli stessi, il sesso e la droga, identica è la gratuità, uguale il nichilismo machista/frocio. Che cos’è un uomo capace di massacrare un essere umano senza odiarlo, senza sapere nemmeno chi è?

Eppure tra quarant’anni di questo delitto non ci ricorderemo. Perché il mondo è cambiato, le notizie si accavallano e si coprono l’una con l’altra, i media sono esplosi. Del delitto del Circeo abbiamo una sola foto, scattata all’apertura del bagagliaio della 127 parcheggiata a Via Pola. Si vede un fantasma, uno zombie, un essere umano martoriato, il volto pestato e coperto di sangue, nudo, che si tira su. È Donatella Colasanti. L’altra, Rosaria Lopez, è lì accanto a lei, morta. Come dimenticarlo?

Un paio di giorni dopo l’omicidio del Collatino, il padre di uno degli assassini va in una televisione, nel talk show di Vespa. Valter Foffo ha i capelli bianchi, un bel viso, un forte accento romano. È vestito con eleganza, ha un completo grigio e una cravatta rossa, di mestiere fa il ristoratore. Parla con calma, senza emozione. Nel momento in cui tutti noi vediamo la sua intervista, nessun giornale è riuscito ancora a procurarsi una foto di suo figlio, Manuel. Chissà se è un caso o c’è una regia. Se qualche astuto avvocato ha immaginato che sarebbe stato meglio che prima vedessimo un uomo distinto, coi capelli bianchi e la cravatta, e più tardi l’immagine del figlio, l’assassino. Un’unica fototessera sgranata. Chissà se l’asimmetria di informazione è reale, pilotata dalla difesa o inventata dai giornali come strategia narrativa.

Perché dell’altro invece, Marco Prato, sappiamo tutto. Dalla sua pagina Facebook sono uscite decine di fotografie molte delle quali selfie. Ambientate quasi tutte in locali, durante feste in cui la gente sembra divertirsi moltissimo. Tutti tranne lui, Marco, che come chiunque si sia esercitato a lungo a imporre la propria volontà e il carisma, sa che non bisogna mai sorridere. Di questa sua attitudine alla manipolazione degli altri hanno parlato alcuni suoi conoscenti, distribuendo infiniti particolari sulle sue predilezioni sessuali, la seduzione per la violenza, il sangue, le pratiche sado-masochiste. Rimorchiava uomini su Grindr, la app per gli incontri gay. Il vizietto, sembra fosse il suo nick. Ma da qualche tempo non gli bastava più: cercava di comporre sesso a tre, orgie, festini resi infiniti dalla potenza concessa dalle droghe, dicono i suoi conoscenti.

O forse semplicemente Marco non sorride perché lui non si diverte, perché davvero è una persona rabbiosa, rivendicativa e del tutto a disagio nel suo corpo. C’è persino chi si è accanito sui suoi capelli, su un ciuffo o un parrucchino posticci, come sintomo di chissà cosa. Marco Prato faceva il PR, qualunque cosa voglia dire. Il suo lavoro era mostrare che tutto quello che gli accadeva intorno era meraviglioso, e seguirlo era la scelta giusta. Il suo lavoro erano quelle fotografie.

È bello da poco tempo, dicono. Grazie a una dieta, e molta palestra, si è trasformato da ragazzino grasso, emarginato perché omosessuale, in un perfetto maschione. Sulla sua pagina ci sono foto di quando era bambino, e dell’adulto. Niente della fase sfigato. La sua auto-narrazione è organizzata e finalizzata alla costruzione di un personaggio che conosciamo bene, che sappiamo riconoscere perché già letto in un romanzo di Ellis, interpretato da Leonardo DiCaprio, descritto nell’autobiografia di una qualsiasi rock star: il tossico psicopatico. Che chiamiamo così per semplicità, ma non sappiamo con esattezza quale dei due termini sia derivato dall’altro, o se convivano fin dall’inizio nel suo profilo psichiatrico.

È stato detto che non si uccide perché si prendono droghe, altrimenti chiunque lo farebbe. Che non è stata la cocaina a massacrare a martellate e coltellate Luca Varani, ma due uomini, adulti. Vero. Eppure quei due adulti, interrogati a caldo, hanno detto quella frase terribile: volevamo fare del male a qualcuno, volevamo vedere che effetto fa uccidere. Chi, in uno stato di lucidità, direbbe una frase del genere dopo l’arresto?

Poi, a mente fredda, la frase è sparita. Dopo le foto di Marco e i commenti dei suoi conoscenti sono arrivate altre parole, altre prospettive. Ma di Manuel Foffo ancora pochissimo. Possiamo accanirci contro il padre, per quella sua apparizione televisiva in giacca e cravatta, per la freddezza con cui ha detto mio figlio è «un ragazzo modello, contro la violenza, molto buono, forse eccessivamente buono. E riservato, con un quoziente intellettivo sopra la norma». Parole scellerate di fronte a un omicidio, certo. Ma non ci aiutano a capire. Amici, fidanzate, colleghi non ne abbiamo sentiti. Chi è Manuel? L’appartamento al Collatino è suo: cosa ci faceva Marco?

Sono eterosessuale, ha detto. Ma a Capodanno ho avuto un rapporto orale con Marco. Lui lo ha filmato e mi ricattava. Mi imponeva la sua presenza, era fissato con me. Marco racconta invece che Manuel voleva scopare con lui, e per questo lo aveva invitato, ma voleva che fosse vestito da donna, voleva che fossi la sua bambolina, specifica Marco. Per questa ragione si porta una parrucca, un vestito, tacchi e smalto per le unghie, quando va nella casa al Collatino. Martedì sera. Luca verrà ucciso venerdì mattina, intorno alle nove. Cioè più di 60 ore dopo l’inizio di tutta la faccenda. E mentre il cadavere di Luca è nel bagno, i due, Manuel e Marco, esausti dormiranno abbracciati sul letto. Un tempo infinito, ore, giornate chiusi in quella casa. Cosa fanno?

Si drogano, bevono, scopano. Invitano altre persone, per adesso ne abbiamo contate quattro: uno spacciatore albanese, tale Giacomo, Alex Tiburtina come era memorizzato sul telefonino di Foffo che dovrebbe essere un militare, e un’altra persona non identificata. L’albanese porta cocaina o quella che sia. Forse anche GHB, un acido che “a dosi basse, può causare uno stato di euforia e di aumentata socialità. Si avranno anche una sensazione di benessere, rilassatezza, aumento della sensazione tattile e del desiderio sessuale. Negli uomini è diffusa soprattutto poiché aumenta il mantenimento dell’erezione maschile. Il mattino dopo l’assunzione, si avranno gli stessi effetti di un dopo sbronza (nausea, vertigini, confusione mentale e la quasi totale assenza di ricordi che riguardino il periodo d’azione del GHB), tranne se assunto in dosi elevate, in quanto funge da anestetico” (Wikipedia). Il GHB, chiamato anche droga dello stupro, dovrebbe essere la ragione per cui Luca, la vittima, si è sentito male ed è stato incapace di difendersi dall’aggressione.

Marco, secondo la sua stessa ricostruzione, fa sesso con Manuel e con Alex, sempre vestito da donna. La notte tra giovedì e venerdì Manuel ha una tipica reazione da tossico: si fissa che devono portarsi a casa una marchetta e stuprarla. Aveva alcune fissazioni ricorrenti, dichiara Marco, tra cui quella di uccidere suo padre (Valter, quello che è andato in televisione a dire che suo figlio è un ragazzo modello, buono, forse eccessivamente buono). Quindi escono e vagano per la città, Marco è sempre vestito da donna.

Non trovano nessuno e quindi decidono di convocare Luca, offrendogli 150 euro per farsi scopare. Non è chiaro in che relazione fosse Luca con Marco, perché avesse il suo numero sul telefonino. Forse questa transazione sessuale era avvenuta altre volte, forse, come ha invece provato a immaginare un amico di Luca, era la droga il loro legame. Secondo questo amico 150 euro sono troppo pochi per una prestazione sessuale a domicilio e quindi è più probabile che si trattasse dell’ennesima consegna di cocaina. Quando siano partiti gli altri 22 messaggi di convocazione di cui si è parlato, non è stato detto. Forse sono precedenti, si tratta di persone che hanno partecipato al festino notturno, o forse contemporanei, e disattesi. All’inizio si era detto che Manuel e Marco avessero fatto una specie di pesca a strascico, e Luca fosse l’unico rimasto impigliato nella rete. Ma poi di questi messaggi non si è più parlato.

Qualcuno doveva morire. Lo hanno detto all’inizio nella confusione mentale, e lo ritirano fuori dopo un po’. Lo accenna Marco, e poi lo ribadisce con maggior precisione Manuel: qualcuno doveva morire, e quel qualcuno era mio padre. Marco mi ascoltava, e io scoprivo tutta la mia rabbia, il mio rancore, il desiderio di vendetta.
Invece è morto Luca Varani, 23 anni. È morto dissanguato, per le coltellate e le martellate. Forse mentre si accaniva su di lui, Manuel immaginava che quel corpo fosse del padre, al quale finalmente la stava facendo pagare.

Ma tra quarant’anni di certo non ce lo staremo chiedendo ancora. Perché il nostro tempo non garantisce nessuna esemplarità, non sa dire: ecco, questa cosa inizia qui e finisce qui. È un tempo, lo diciamo sempre, in cui tutto sta in un flusso, liquido, continuo.

Ma per tutto il tempo in cui lo ricorderemo, una settimana, un mese, un anno, ci sarà rimasta impressa molto di più quell’unica foto tessera sgranata che ritrae Manuel Foffo, di tutte le decine di immagini festaiole di Marco Prato. Compresa quella, grottesca, con gli occhiali a cuore. Perché ogni cosa che manca è più forte di ogni cosa che c’è. E questo non cambierà mai.