Per anni è stata una moda giovanile diffusa quanto innocua. Oggi invece i pattinatori in linea sono una comunità minoritaria ma agguerrita. Con una missione: rovesciare il rapporto di forza con le città. E fare la rivoluzione urbana (Foto di Pietro Firrincieli)
Partiamo da lontano. Con un viaggio nel tempo. A tappe. Sembrerà alquanto strano, ma i progenitori dei blade sono stati i dandy dell’Ottocento. Baudelaire, Wilde. Di fronte all’omologazione delle vite cittadine, rigidamente separate dalle caratteristiche della classe a cui appartenevano. Ci fu chi scelse una terza via.
Nacquero così i dandy. Oggi il termine si è svuotato del suo senso principale, ed è diventato sinonimo di eleganza decadente. Ma è solo un frammento sopravvissuto di una volontà di essere diversi, di vivere diversamente e di non vergognarsene: anzi, di farne una bandiera, ostentandola.
Facciamo un salto di oltre un secolo. Quando nacquero “i giovani”. Diciamo alla metà degli anni Cinquanta dello scorso secolo. Prima, “i giovani” semplicemente non esistevano o, meglio, erano semplicemente degli adulti non ancora giunti a compimento. Poi accadde qualcosa. Complice un ancora rozzo mercato globale, si intuì una vasta, nuova, gamma di consumatori. “I giovani”, appunto. Innanzitutto ribelli (il mito per eccellenza, James Dean e il suo film simbolo e emblema senza tempo: “Gioventù bruciata”, appunto). Nuovi “dandy” (nel senso di cui abbiamo parlato sopra) loro malgrado, incompresi dagli adulti, diventarono e continuano a essere una categoria sociale, oggi invero assai meno epica. Tranne eccezioni di cui parleremo e, grazie all’esemplare ricerca umana e fotografica di Pietro Firrincieli, vediamo. [[ge:rep-locali:espresso:285189029]] Torniamo un attimo alla nascita dei giovani. Il luogo è la California. Il veicolo di diffusione internazionale è la musica. L’Italia, con un certo ritardo, si accorge del fenomeno a modo suo e, con lo strepitoso successo di “L’esercito del surf” crea la versione nostrana del mutamento di costume. Siamo a metà degli anni Sessanta. Nei campus americani erano già in pieno rigoglio le rivolte culturali e, in ambito musicale, i Beach Boys ormai da un lustro portavano avanti a suon di canzonette (e che canzonette!) una rivoluzione che gli ancora germinali Beatles e Rolling Stones preparavano. Di lì a poco vennero Warhol, i Velvet Underground e l’irripetibile Grande Mela a cavallo tra gli anni Sessanta e Settanta. Con in mezzo il Sessantotto. La cultura on the road. Le droghe come esperienze di conoscenza quanto di negazione della “normalità”.
Tanta roba. Davvero tanta. Una concentrazione di energia che non si è mai più ripetuta. Perlomeno non con tale carica utopica. Ma torniamo dall’altra parte dell’America. I Beach Boys (“Ragazzi da spiaggia”) e la “medium” (nella nostra cultura) Spaak, e James Dean e insomma questo sterminato (per quanto storicamente determinato) retroterra culturale avevano in comune “un disimpegno corrucciato” e il divertimento come qualcosa di molto più serio di come possiamo intenderlo ora. Più prossimo a una scelta di anarchia militante che non a una “perdita ludica di tempo”.
Ma c’è una cosa che vale la pena notare e tenere ferma, filo conduttore da quei primordi agli attuali blade. “L’esercito del surf” faceva della tavola con la quale cavalcare le onde del mare uno strumento tangibile di libertà. Ovviamente il valore simbolico si dispiega con potenza. Ma non era solo un simbolo.
Era una “cosa”. Con la quale (si torna al simbolo) sfidare le onde della vita. Arriviamo al presente. Un presente sfasciato in mille rigagnoli, finanziariamente sempre più globale quanto antropologicamente glocale.
Il movimento Blade, che ha visto il suo acme negli anni Novanta, si è progressivamente rimpicciolito in chiave inversamente proporzionale a chi ne fa ancora parte. Piccole comunità sempre più underground in Europa, negli Stati Uniti e in Messico sono il sincretismo di decenni di scelte di vita alternativa di eclatante esemplarità. L’orgoglio di essere diversi. Una diversità che unisce chi ne fa parte ma al contempo si integra nelle città che di volta in volta abita e perlustra. E poi le gare. Disciplina e anarchia. Follia e metodo. “Fumo” e perfetta forma fisica. Se ancora ha significato, oggi, la parola “romanticismo”, ce ne è molto in queste scelte di vita.
Soffermiamoci sull’oggetto che li unisce, quei “pattini in linea” (rollerblade) inizialmente concepiti come strumento d’allenamento estivo per i giocatori di hockey e poi diventati, con la potenza e l’efficacia delle innovazioni, strumenti a sé. Inventati nel Minnesota nel 1980 e passati attraverso diverse vicende produttive (attualmente sono prodotte da Tecnica, dopo l’interesse della Nordica, con partecipazione Benetton), sono un ottimo strumento non solo da competizione sportiva ma da vera e propria “perlustrazione della realtà”, innanzitutto urbana. Il roller sfida e conosce le architetture, le vive in prima persona.
Se il flâneur di Baudelaire godeva nel passeggiare per la città svagandosi a guardarla, il rollerblade l’aggredisce facendola propria, disegnando geometrie che diventano appropriazione. Quindi vivere e non guardare. Essere “fuori” per esserci dentro di più o, meglio, veramente. Giocare a Città invece di subirne la forza impersonale e soverchiante. Domandola. È una scelta di vita come sfida ma anche come integrazione paradossale, proprio dove le città prevedono una sempre più marcata distanza tra architetture e chi le abita o semplicemente le frequenta perché obbligato.
C’è un’analogia con i writer, ma è solo un’analogia. Una comune e forse inconscia volontà di ridare all’antropologico il suo primato che è poi quello della scoperta, dell’avventura, dell’appropriamento del mondo che oggi è riappropriamento. Perennemente on the road. Perlustrando. Le gare sono quasi un pretesto. Un punto di partenza e un legame “istituzionale” che conduce perennemente altrove.
In fondo, i runner sono l’opposto dei turisti. Laddove il sistema tende a domarci offrendoci strutture per un divertimento precostituito e determinato da regole finalizzate al business del paesaggio, il runner sovverte le regole e scopre il mondo “consumandolo” con un’esperienza autonoma e diversa: quella della contaminazione imprevista tra sé e il luogo proprio laddove il luogo non si presenta come “da visitare” con ordine e, soprattutto, pagando. In fondo, i runner non fanno altro che quello che l’uomo non alienato ha sempre fatto: sfidare il mondo conoscendolo fisicamente. Anche se oggi è un mondo alla seconda, più virtuale che reale e ormai già tutto scoperto, già tutto conosciuto sotto l’occhio familiare quanto inquietante delle telecamere e del satellite. Si tratta allora di vivere tutto questo in un modo diverso.
È chiaro adesso perché Baudelaire approverebbe? Certo, non è cultura “libraria”. È cultura agita. Ma è diversa. È viva. Con buona pace dei benpensanti. Sempre più nevrotici. Sempre più alienati.
Diceva Ferdinando Camon, in una sua splendida raccolta di versi pubblicata una ventina di anni fa, che «occorrono interi millenni / per liberare l’animale». Quel termine, “animale”, ha una doppia valenza. La prima, ferina, soffocata dall’opposizione tra chi crea i paesaggi e chi li subisce, in una “civilizzazione” falsificante. La seconda, che più ci interessa, è quella che vediamo qui. “L’animale” (da “anima”) uomo che, oggi ma ancora, per istinto, residuale Ulisse, trova ovunque Colonne d’Ercole. E le varca. Con sapienziale quanto menefreghista sprezzo. La “follia controllata” degli sciamani di Castaneda come arma di conquista dello spazio e del tempo che a ciascuno è donato.