Esce da Mondadori una scelta dei taccuini personali del cantautore genovese. Non solo musica: potere e consumismo, amore e sessualità, vincenti e perdenti. Sono testi coraggiosi, e spesso "scorretti”. Di un poeta anarchico

«A Zena a u tramuntu gh’è ciû belín intâ mussa che pûgnatte au foegu» è un motto popolare genovese che Fabrizio De André, seppur tradotto dal dialetto suoni meno dolce («A Genova al tramonto ci sono più cazzi in fica che pentole sul fuoco»), amava molto, e ha confidato ai suoi “Diari”.

Erano attesi. Li pubblica in questi giorni Mondadori, a cura della Fondazione Fabrizio De André che, con Dori Ghezzi e ricercatori dell'Università di Siena, ha setacciato anni e anni di taccuini, fogli sparsi, note occasionali del poeta e cantautore morto a Milano nel 1999, alla fine del Secolo breve. Il titolo suona curiosamente femminile: “Sotto le ciglia chissà” (Mondadori, pp. 238, €19,50).

C'è molta poesia, appunto: e non tutta brusca come la battuta iniziale sul «belín intâ mussa». C'è la libertà mentale. L'ironia tagliente. La malinconia, anche. E un fondo persistente di anarchismo anti borghese. Nonostante “Faber” fosse figlio della agiata borghesia industriale della città, raccontava che da ragazzo, al salotto buono, preferiva il vicolo, il porto, l'ombra dei caruggi, e che una certa notte gli spiegò tutto una puttana di nome Anna.

Com'è ovvio, nei “Diari” dell'autore di “Bocca di rosa” e “Amico fragile” ci sono passaggi privati, non scritti per il pubblico. Di politica, poca. Di politico c'è la sua passione per i marginali, gli ombrosi, i perdenti e i perduti.
Anche se i testi non sono datati (ed è un difetto del libro; sarebbe stato utile per collocarli meglio nella vicenda italiana recente) si registra che Faber non ebbe gran simpatia né per il Sessantotto, francese e italiano, né per la violenza in politica, non parliamo delle degenerazioni negli Anni di piombo. Neanche per il Pci, partito egemone nella cultura italiana pre 1989. Naturalmente zero simpatia per i fascisti di ieri e di oggi, e poca per i liberali (che forse accomunava alla figura del padre, col quale peraltro poi si riconciliò).

Ci sono passaggi, intorno alla cosa pubblica, alquanto sorprendenti. Per esempio, riflettendo sull'etica della politica, e sugli anni di Tangentopoli, il poeta libertario prevale sul moralizzatore. Con esiti che possono anche scioccare. Sentite solo questo passaggio su Mario Chiesa, il dirigente socialista di Milano con le cui ruberie prese avvio, nel 1992, l'inchiesta Mani Pulite.

«Ma io non sono diverso da Mario Chiesa», annota De André, «mi manca solo la tecnica. Se potessi e sapessi rubare, ruberei».

E spiega cosa intende: «Che tracotanza devo avere per sentirmi buono e onesto e puro, e che razza di schifezza sarei sempre a rompere i coglioni al mio prossimo. Il mio prossimo è ladro, vende i bambini, impicca i fatti, tende trappole mortali a nemici sconosciuti per pochi denari».

Ma poi, parecchie pagine dopo, confessa: «Non ho ancora capito bene che cosa sia esattamente la virtù e che cosa esattamente sia l'errore». E conclude: «Ho sempre provato pena per chi sbagliava. Altrimenti avrei fatto un massacro». E qui De André ha davvero una nota molto personale, che è difficile non rispettare.

Ma sarebbe fuorviante sottolineare solo i passaggi “scorretti” di un Faber provocatore. Per gli appassionati di musica (e poesia) le pagine rivelatrici e toccanti sono molte. Parla di Brassens e di Jacques Brel. Parla delle proprie canzoni preferite. Parla di sessualità, nel giovane e nell'uomo che invecchia. Confessa in più punti la sua dipendenza dall'alcol. Non citiamo brani, qui, per non rovinare il piacere della sorpresa.

De André scrive: «Raramente un artista è stato un eroe. Più spesso vive isolato e come timidissimo coniglio».
Isolamento, solitudine, malinconia ricorrono spesso. Le paure maschili. Un pessimismo di fondo sulla società dei consumi. Lo squilibrio crudele tra vincitori e vinti, integrati e marginali. Il rapporto difficile col denaro, le pressioni dell'industria discografica su di lui autore. Il peso del suo cognome, che suona molto più ricco di lui che lo porta.

E c'è la sua passionaccia per Genova, naturalmente. Città difficile, meticcia, diffidente, scrive, dove se non sai far ridere o non sai far piangere, è meglio che te ne vai altrove. E infatti più volte confessa: Sono un emigrante anch'io, emigrato a Milano. Un po' a Milano, e un po' in Sardegna (dove si trasferì a 35 anni). Sulla Sardegna ci sono pagine bellissime e toccanti.

Per finire, un esempio del suo invincibile sarcasmo: «Tutti sono passati (nazisti, romani, comunisti). Gli zingari sono rimasti».

E un esempio del suo amore per l'amore: «Ti troverò sulle sponde dei sogni, sulla riva dei giorni».