Intellettuali e politica, Sandro Veronesi: 'Taci, il nemico non ti ascolta'
Anche se si impegnano, gli intellettuali trovano ?solo silenzio. Dopo gli interventi di Valeria Parrella, Michela Murgia e Aldo Nove, anche l'autore di 'Caos Calmo' partecipa alla discussione avviata da Paolo Di Paolo
Una mia amica americana ha scoperto di avere un tumore. Diagnosi precoce, alte probabilità di guarigione, aveva il privilegio di poter decidere tra diverse soluzioni di cura - equivalenti in termini di riuscita ma non in termini di rischi collaterali. Aveva la sua brava assicurazione sanitaria, senza la quale negli Stati Uniti non vale proprio la pena ammalarsi, ma alla fine è stata costretta a venire a curarsi in Italia. Perché? Perché l’assicurazione aveva la pretesa, e a quanto pare anche il diritto, di scegliere per lei la cura da affrontare - nel caso specifico, la chemioterapia: cioè a dire che se la mia amica avesse deciso qualsiasi altra soluzione (ripeto, equivalente come probabilità di riuscita) l’assicurazione non l’avrebbe coperta - e lei la chemioterapia non voleva farla.
Ecco un buon punto di partenza per riflettere sulla discussione che da qualche settimana occupa queste pagine a proposito dell’impegno degli intellettuali. Come nel caso della mia amica americana, infatti, la domanda fondamentale è: chi deve decidere? A chi spetta, nella fattispecie, la decisione su quando e a proposito di quale causa un intellettuale debba mettere in campo il proprio impegno? A prima vista la risposta sembrerebbe semplice: la decisione spetta a lui. Ma a prima vista anche quella alla domanda su chi debba decidere le cure da fare quando ci si deve curare un tumore sembrerebbe altrettanto semplice, e invece scopriamo che in America, cioè la patria della libertà e dell’individualismo spinto, questa decisione non spetta al paziente bensì al Soviet della sua assicurazione. E leggendo gli interventi che si sono susseguiti sul tema viene il dubbio che anche in questo caso la risposta non sia così scontata.
Cosa si deve pensare se, a fronte di un numero considerevole di intellettuali apparentemente anche troppo impegnati sui fronti più disparati (ambientalismo, pacifismo, diritti umani, diritti della donna, diritti dei bambini, diritti degli animali, libertà di stampa, di espressione, di religione eccetera eccetera), si sente ciclicamente lamentare l’assenza di intellettuali impegnati? Forse questo significa che quegli intellettuali impegnati non li si considera abbastanza impegnati? E in questo caso, e di nuovo, a chi spetta decidere la dose di questo loro impegno? Se impegnarsi, su cosa e quanto, sembrano dunque questioni che il singolo intellettuale, cittadino come tutti gli altri ma con dei doveri etici forse superiori, non può risolvere per conto suo con le sue libere scelte. Può però vendicarsi subito dopo, contribuendo a mettere in discussione le scelte degli altri, per arrivare al grottesco risultato che non può decidere a proposito di sé medesimo ma può farlo a proposito degli altri.
La recente cronaca culturale è zeppa di polemiche, sollevate da intellettuali, sul perché gli intellettuali non abbiano abbastanza sostenuto o combattuto questa o quella causa, in un frantume di interventi e repliche che, lungi dal giovare alle cause cui si riferivano, al contrario hanno fornito l’ennesima dimostrazione di quanto del resto già ben si sapeva, e cioè che, alla fine, gli intellettuali non contano un bel nulla. Nada, zero, sia che s’impegnino, sia che non s’impegnino. Gli scrittori, i registi, i professori universitari, gli artisti: godono di ampia libertà, e possono magari anche trovare sul proprio cammino il successo, il denaro e perfino la gloria - ma non possono pretendere di essere ascoltati. Non qui, non nel libero Occidente.
Pasolini, ogni volta menzionato quando si sfiora l’argomento, è stato forse ascoltato? Ha potuto scrivere, certo, ha potuto accusare e inveire (con qualche problemino giudiziario, a dire il vero, cioè 33 processi penali), ma tutto il suo impegno ha per caso prodotto qualcosa di concreto - uno scarto politico, un momento di riflessione collettiva, un cambiamento di rotta? No, il nostro paese è scivolato esattamente nel pantano di cui Pasolini ha parlato mille volte quando era in vita (inutile star qui a ripetere quale), e questo mentre lui non veniva affatto messo al bando - attenzione - ma al contrario progressivamente assorbito, metabolizzato e ultimamente perfino innalzato a padre dalla nostra cultura, con relative celebrazioni. Una beffa, una beffa totale. [[ge:espresso:plus:articoli:1.264331:article:https://espresso.repubblica.it/plus/articoli/2016/05/05/news/intellettuali-e-politica-michela-murgia-noi-scrittori-del-reale-in-trincea-contro-i-media-1.264331]]
A fronte di questo, però, ecco che continuano le accuse reciproche su quanto poco scrittori e intellettuali stiano facendo per quelle cause alle quali non sono in grado di portare il benché minimo contributo concreto. E quando qualcuno lo fa ugualmente, cioè si impegna, frontalmente, manifestamente, perché così ha deciso, e ce la mette tutta senza stare a calcolare quanti frutti possa generare il suo impegno, ecco subito sorgere polemiche e ostacoli sul come l’ha fatto, se sia lecito o no farlo in quel modo, col risultato che spesso uno sforzo immane finisce per venire seppellito di critiche e sospetti.
Esemplare è in questo senso il caso di Gianfranco Rosi e del suo film “Fuocoammare”, vincitore dell’Orso d’oro a Berlino (giuria presieduta da Meryl Streep, non da me). Ecco, è proprio questa la cosa migliore da fare per capire come stanno le cose: pensare che mentre montavano e si esaurivano le polemiche sul fatto che si facesse abbastanza oppure no per sostenere Charlie Hebdo, Erri De Luca, i cinghiali della Toscana, o per combattere la pena di morte nel mondo, il monopolio editoriale del gruppo Mondadori-Rizzoli, le trivellazioni nel mare Adriatico, lo scarico abusivo della plastica nell’Oceano Pacifico (mi limito a citare le cause per le quali, sicuramente troppo poco, mi sono impegnato io), Gianfranco Rosi passava un anno e mezzo a Lampedusa a distillare con pochi soldi ogni prezioso fotogramma del suo film, dal ragazzino che succhia in silenzio gli spaghetti al pomodoro alla donna che rifà il letto a suo marito, dal medico che rende testimonianza di cosa significhi accogliere i migranti e constatarne la morte fino alla - sì, proprio così - vera stiva della vera nave piena di morti veri. Viene da dire: più impegno di così.
Poiché il risultato alla fine è perfino “bello”, cioè non è solo una testimonianza ma un’opera di pregio internazionalmente riconosciuta come tale, ci si poteva aspettare che in questa fervida necessità di impegno tutti si fermassero un istante, stupiti e col cappello in mano, a rendere omaggio a questo regista bravo, indipendente, sorprendente e veramente impegnato. E invece no. Pur trionfatore a Berlino, in Italia il film è uscito in pochissime sale, accompagnato per di più da polemiche feroci sul fatto che si tratti di vero cinema o no e sul diritto che uno ha di filmare i morti veri, e infine ignorato ai David di Donatello a vantaggio di un simpatico fantasy nostrano come “Lo chiamavano Jeeg Robot”. Viene voglia di arrendersi all’orrenda massima di Piergiorgio Bellocchio contro la quale mi sono battuto tutta la vita, ma che sembra uscire decisamente vincitrice da questo nostro tempo desolato: «Taci, il nemico non ti ascolta».