Da anni si discute delle declinazioni al femminile. E troppo spesso i neologismi scatenano antipatie violente

In occasione dell’inaugurazione a Montecitorio della «Sala delle Donne», la presidente Laura Boldrini ci ha dato davvero dentro. Il suo staff ha diffuso un tweet che diceva: «Nella #SaladelleDonne le prime 10 sindache, la prima presidente di ?@Montecitorio, ministra e presidente Regione».

Se ne discute ormai da anni, ma malgrado le decise aperture che sono arrivate a più riprese non solo dall’Accademia della Crusca ma anche dai vocabolari più diffusi, le versioni femminili dei nomi che indicano cariche e professioni (ingegnera, architetta) vanno incontro ad antipatie quasi violente e non sempre di provenienza maschile. Una specie di linguistica selvaggia decreta che «sindaco» e «ministro» sarebbero indeclinabili per genere.

Molto diffusa la spiritosaggine per cui si accetterà di dire «ministra» quando si potrà dire anche «guardio».

Appena una tacca sotto si incontrano quelli che obiettano che «ministra» fa pensare alla «minestra» e «architetta» alla «tetta». Chissà se gli stessi al verso «Stette la spoglia immemore» pensano alle tette di una donna nuda.

È anche diffusa l’opinione per cui queste sarebbero parole «brutte», non nel senso di «volgari» ma nel senso di «sgraziate».

Per quanto immotivato, il sentimento popolare verso le parole ha una forza non trascurabile. Ci vuole dunque pazienza e molte più donne in posizioni considerate tradizionalmente maschili. L’abitudine, quando ce la si farà, renderà ridicola ognuna di queste obiezioni.

Anagramma:
Laura Boldrini = bandir, là, ruoli.