Libertà di Espressione. Se la satira non fa arrabbiare che senso ha?
E se non offende, non fa ridere. Dall’800 a Facebook, dal “Re Bomba” a “Charlie Hebdo”, la storia dell’umorismo ?è costellata di vignette ?al vetriolo. Il potere ha risposto con sequestri e processi, i terroristi con gli attentati. Ma ora la cattiveria dilaga anche sul Web. Ed è giusto così
La vignetta di “Charlie Hebdo” sul terremoto del centro Italia vi ha fatto indignare? Siete tra quelli che non trovano così assurda la querela per diffamazione voluta dal sindaco di Amatrice? Niente di grave: i duelli, gli scontri feroci, le crisi allergiche intorno alla satira hanno una storia infinita. Certo, il recente assalto italiano ai vignettisti francesi ha qualche tratto surreale: un brusco, isterico mutamento di prospettiva, una sequenza di distinguo speciosi sui confini della libertà di far ridere. E senza l’Islam di mezzo.
Eravamo tutti “Charlie”? Adesso non più. In verità, non lo siamo mai stati. Come non lo erano gli accigliati gendarmi che il 27 luglio 1848 chiusero quel giornale «diabolico» che era “Lo Spirito Folletto”. Manipolo di sobillatori scalmanati! Non erano “Charlie” i soldati di re Ferdinando II che, qualche mese prima, entrarono armati nella redazione dell’“Arlecchino”, a Napoli, per punire i caricaturisti rivoluzionari. E non erano “Charlie” nemmeno i giudici che, nel marzo 1850, condannarono - con velocità impressionante per un processo italiano - un povero disegnatore, Gabriello Castagnola, e con lui l’editore e il fondatore del giornale “La Strega”. Capo di imputazione? Aver pubblicato una vignetta con l’Italia crocifissa tra due ladroni. I ladroni erano Re Bomba (il solito Ferdinando II) e Carlo Alberto; Cavour e Rattazzi si spartivano a dadi le spoglie. «Il giornale ha rappresentato l’Italia in croce, mentre l’Italia si trova nello stato più florido che si possa desiderare», così i censori.
La conclusione è quasi ovvia: se nessuno si offende, non è satira. Ne sapeva qualcosa quello Scalarini in scena da protagonista della satira per trent’anni, vessato, aggredito e infine arrestato nel 1926. Restò al confino a Lampedusa per tre anni. Nelle sue vignette (in mostra a Mantova fino al 30 settembre), si burlava delle guerre coloniali e delle camicie nere, prendeva di mira i gerarchi grassocci e disegnava Mussolini e soci con un teschio di morto al posto della testa.
Ma la satira, se funziona, non fa arrabbiare solo i potenti, crea scompiglio, spiazza, turba, disgusta. Le scuole acidissime di Maccari e Longanesi, i giovani genietti del “Marc’Aurelio” che con mano felpata tirano in ballo i vizi nascosti degli italiani, le baruffe sul “Candido” di Guareschi dove i comunisti vengono disegnati con tre narici: «Il terzo buco è necessario per scaricare tutto il fumo che hanno nel cervello». Sembra un’altra Italia. Lo era.
Ma se ci pare impossibile uno “Charlie” italiano, è colpa di un difetto di prospettiva, o forse di un vuoto di memoria.
Quante opzioni del racconto satirico abbiamo immolato all’altare del politicamente corretto? Prendete il lavoro che faceva uno come Pino Zac - al secolo Giuseppe Zaccaria - prima con “Il Quaderno del Sale” (ispirato, guarda caso, al francese “Canard enchaîné”) e poi con “Il Male”. I tardi, plumbei anni Settanta risuonavano di sghignazzi osceni e macabri: sulle pagine di quel settimanale che regalava ai lettori un Fanfani in miniatura da ritagliare e costruire, capitava di vedere anche Papa Wojtyla in costume da bagno: «Col cazzo che col comunismo mi facevo la piscina!». Di più: un Gesù crocifisso col pene eretto, un Giovanni Paolo I in Paradiso che grida “Mamma!” davanti a un Dio con la barba (il papa aveva detto: «Dio è padre; più ancora è madre»). Altro che le cosce della Boschi!
Uno del gruppo, Calogero Venezia, finì in carcere per vilipendio alla religione. E nonostante questo, al “Male” non si fermavano di fronte a niente: Paolo VI in vesti di ubriacone, Ugo La Malfa appena morto disegnato come una tartaruga spiaccicata («In fondo era solo una tartaruga!»), il volto di Aldo Moro in cui il naso diventa un pene e le guance uno scroto, Pertini presidente indicato come un «pregiudicato». In una finta prima pagina di “Paese Sera”, Ugo Tognazzi diventava capo delle Brigate rosse. L’attore, complice dello scherzo, rivendicò solennemente il diritto alla cazzata. «Il vocabolario della satira si sta restringendo», mi dice Enzo Sferra, nel gruppo fondatore del “Male” con Vincino, Angese e Perini. «Una sorta di seriosità solo apparente e trasversale, il rispetto ossessivo per ogni minoranza rendono quasi impossibile il lavoro di chi fa satira». Se non puoi toccare vecchi, bambini, donne, chi resta?
Sul “Male” potevi trovare una ragazza che domanda a suo padre «Papà com’è la mia fica?», un tagliando a uso dei democristiani con un grosso fondoschiena da ritagliare («Democristiani, gli avete dato il voto? Dategli anche il culo!») e la Sacra Sindone dissacrata. Il diritto alla cazzata, sì, e anche alla sgradevolezza. Ma come si fa a decidere quando una vignetta è stupida? Il buon gusto può essere, per la satira, un metro di giudizio? Sferra mi fa l’esempio di una copertina del “Male”, estate 1978: il pretesto è la morte sul ring del pugile Jacopucci. Sulla copertina, c’è Jacopucci redivivo con un casco coperto di elettrodi e la scritta: «Formidabile! Jacopucci torna a combattere!». Fa ridere? Non è spiritosa, dirà qualcuno, solo cattiva. Ma chi può essere giudice obiettivo?
Pierre Kroll, belga, uno dei grandi caricaturisti europei, è convinto che «non offendere gli altri» è letteralmente impossibile, se si posa una matita su un foglio per fare satira. E se provo a non offendere nessuno, non posso tecnicamente far ridere. «L’umorismo è un po’ come un bambino che fischia nel bosco per essere meno spaventato. Perché ridiamo della morte, del sesso? Perché sono le cose che ci spaventano».
Nel cuore degli anni Ottanta arriva “Tango” diretto da Sergio Staino, con le tavole di Vincino e di Andrea Pazienza; dai dintorni della caduta del Muro al primo atto del berlusconismo prende il campo “Cuore”, inventato da Andrea Aloi e da Michele Serra, giornale satirico fatto soprattutto da giornalisti. E poi? Poi arrivano i coccodrilli. Così uno dei redattori storici di “Cuore”, oggi scrittore e autore televisivo (anche di Crozza), Alessandro Robecchi, chiama i nemici di quella stagione irripetibile. «La nostra lingua da indiani veniva usata dai cowboys», «quella lingua e quelle occhiate da marziani, e quell’armamentario di trucchi si sono travasati nei giornali, ci rubavano tutto, le nostre armi in mano al nemico». “Repubblica” titolava su Belzebù e si riferiva a Giulio Andreotti. La satira del giornalismo “reale” era superata da un giornalismo reale satirico. [[ge:rep-locali:espresso:285231271]] Nei lanci di Spinoza.it e di Lercio.it una scia, una traccia di quella lezione resta: smontare «i meccanismi di un mestiere ridotto a luogo comune», le ipocrisie; costruire lanci d’agenzia tanto implausibili da diventare plausibili. E se al tempo di “Cuore” quei fogli di carta verde facevano il verso allo sciocchezzaio su carta bianca dei quotidiani, Lercio fa il verso allo sciocchezzaio della Rete, con le sue demenziali rivelazioni, i complottismi, le false notizie. La risata, il ghigno arrivano, ma tutto è pronto a essere centrifugato e disperso nel mare tempestoso dei social. Dove milioni di autori satirici - più o meno arguti, più o meno originali, più o meno patetici - sono pronti ad alimentare la bulimica quanto distratta platea di cui sono parte loro stessi. I ruoli si confondono, niente lascia davvero il segno. «Inviato di Studio Aperto intervista alcuni brandelli di bimbo siriano» (Lercio.it) dice qualcosa, ma non spiazza come quel «Bosnia, che palle!» che campeggiava a tutta pagina su un numero di “Cuore” dell’estate 1995.
E ancora più difficile, forse impossibile, è diventato prendere di petto, ma sul serio, i propri stessi lettori. I loro pregiudizi, le loro certezze. «Perché fermarsi all’adozione dell’embrione?» ci si chiedeva su un numero di “Cuore” di fine Novecento: «Adotta un coglione!». E chi se la sentirebbe di titolare a tutta pagina «L’uomo della strada è una bella merda»? «Servile coi nuovi potenti, sciacallo coi vecchi padroni, l’“homo insultans” si sta affermando in tutto il Paese, parlamento compreso. Come riconoscerlo? Si muove in branco per aggredire gli isolati e ha riflessi lentissimi: in genere si accorge di essere governato da cialtroni disonesti dopo averli votati per mezzo secolo». Sembra scritto stamattina, ma era vent’anni fa. E non c’era nemmeno Facebook.