Il fondatore di Facebook veste nuovamente i panni del visionario, e illustra un mondo in cui la comunicazione umana risiede in ambienti virtuali senza isolarci. E semplifica con la propaganda le complessità della rivoluzione tecnologica che sogna per il mondo

Il disabile in grado di visualizzare le proprie gambe, e allenare il cervello a muovere un primo passo. La signora troppo anziana per andare in vacanza, e che dunque si accontenta di una replica digitale dei luoghi da visitare. Gli uomini d’affari attorno a un tavolo, virtuale, per una riunione di lavoro. È una sofisticata operazione propagandistica sull’idea di “realtà virtuale”, e sui suoi impieghi, quella che Mark Zuckerberg ha ribadito nelle scorse ore con il suo intervento a Oculus Connect 4.



Tre anni fa il CEO di Facebook annunciava l’acquisizione di Oculus, l’azienda sul cui palco è tornato per la terza volta, per tre miliardi di dollari — un valore che, in retrospettiva, è superiore all’intero valore di mercato della tecnologia acquistata. Oggi si tratta di proseguire, esempi alla mano, nell’attuazione di una strategia lanciata allora, e perseguita tappa dopo tappa con precisione chirurgica. L’intento? Rovesciare la concezione di senso comune sul virtuale. E diventarne, proprio come per l’attuale social networking, il dominatore assoluto. La premessa è chiara: niente come la realtà virtuale consente di restituire un senso, profondo e avvolgente, di “presenza” in un luogo non di atomi, ma bit. Da sempre, nell’immaginario collettivo, quella presenza comporta un’assenza, un isolamento dal mondo vero e proprio. Il virtuale, questo l’assunto, ci separa dal reale. Per Zuckerberg, invece, è vero il contrario. E non manca mai di ricordarlo. “La cosa incredibile”, scriveva a marzo 2014, “è che ti fa sentire come se fossi davvero presente in un altro luogo, con altre persone”. “La realtà virtuale mette al primo posto le persone”, commentava dopo l’intervento alla stessa conferenza, nell’edizione precedente.

“Una volta lì”, in quegli ambienti immersivi, “potrete fare ciò che volete, insieme”. Quest’anno è stato ancora più diretto, quasi brutale. “Alcuni sostengono che la realtà virtuale isoli e sia anti-sociale. Io invece la penso all’opposto”, ha detto Zuckerberg, tra i prevedibili applausi degli addetti ai lavori. “È una visione riduttiva del mondo che state creando”, ha aggiunto, rivolto agli sviluppatori nel pubblico. “La verità è che la nostra realtà ha dei limiti — posti in cui non possiamo andare, persone che non possiamo vedere, cose che non possiamo fare. Rendere disponibili più esperienze a ciascuno di noi non isola, ma libera”. Quello di Zuckerberg non è naturalmente un discorso puramente disinteressato, da filosofo o visionario: c’è un investimento da cui rientrare, e soprattutto il futuro della comunicazione umana da anticipare e, a tempo debito, monetizzare. Ma è anche un discorso da filosofo e visionario. Un discorso che ha una radice storica nello scetticismo con cui sono accolte, dall’uomo, le rivoluzioni che cambiano tutto davvero. C’è sempre qualcosa di più “familiare”, più accomodante, dice Zuckerberg, che si potrebbe realizzare invece di provare a rovesciare il tavolo dello sviluppo tecnologico.

Perché costruire un pc quando gran parte dell’utenza chiede solamente uno strumento digitale con cui scrivere? Perché portare un computer in tasca quando le masse vogliono solo un telefono con cui sia anche semplice inviare messaggi di testo? Perché il futuro è di chi lo costruisce, risponde, nella convinzione che così facendo si possa rendere il presente un poco migliore. “Dobbiamo assicurarci che la realtà virtuale sia una forza positiva”, proclama oggi, dopo avere usato, negli anni, le stesse parole per Facebook — prima come una certezza e poi, dopo le accuse di avere favorito populisti e manipolatori di ogni sorta, come un auspicio e una promessa. Se l’obiettivo è connettere il mondo, come vuole il suo vecchio mantra aziendale, quella “forza positiva” deve essere “accessibile a tutti”. Da cui l’annuncio di un nuovo device attraverso cui fruirne, più economico di quelli per desktop e di qualità più alta rispetto a quelli mobili. È una visione ottimistica, quella del fondatore di Facebook, che parte dal rivoluzionare il gaming ma giunge fino alle radici della società, con l’intento di stravolgerle. Di nuovo, la sfrontatezza delle scorse ore non ha precedenti: la realtà virtuale non è “una fuga dal reale: è un modo di migliorarlo”, dice. “Significa curare le malattie, connettere le famiglie, diffondere empatia”, perfino “reimmaginare il lavoro”. Sì, la realissima disoccupazione si può abbattere tramite il virtuale.

“Quest’anno ho viaggiato in tutto il paese”, spiega ricordando il tour che per molti equivale a un’ammissione di ambizioni presidenziali, “e molti dei posti che ho visitato non godono delle stesse opportunità economiche che abbiamo qui”, in Silicon Valley. “Eppure ora abbiamo la possibilità di contribuire a creare un mondo in cui meno persone sono costrette a prendere solo lavori vicini a loro”. E si ritorna alla socialità della “presenza”, in uno slogan: “Consentirci di essere presenti ovunque crea opportunità per le persone ovunque”.

Perché è propaganda? Semplice, perché il discorso che Zuckerberg porta coerentemente avanti da tre anni dimentica del tutto o quasi gli effetti collaterali. Non si chiede mai quali danni si possono produrre in una civiltà intera quando comincia ad abitare due realtà diverse — anche se sovrapponibili, in parte, tramite la nozione di “realtà aumentata”, altra parola chiave del futuro secondo il CEO di Facebook. Cosa accade, insomma, quando c’è un altrove in cui rifugiarsi, sempre, e vivido come il luogo da cui scappiamo.

L’esempio più lampante sta nell’annuncio di stare lavorando a un progetto, ‘Oculus Venues’, che consentirà di sentirsi immersi in un concerto o un evento sportivo insieme agli amici, associando un palco reale a un pubblico virtuale. Per Zuckerberg è un’opportunità in più; per altri potrebbe significare invece un incentivo in meno a uscire di casa, fare la fatica che serve per comprare il biglietto in tempo, recarsi allo stadio o nel locale dove si terrà l’evento, socializzare di persona; soprattutto, a vivere esperienze di prima mano, e non di seconda. Quanto all’empatia, beh, basta leggere le reazioni alla comparsata in VR di Zuckerberg nei luoghi devastati dall’uragano Maria, in Porto Rico, per comprendere come il primo su cui la realtà virtuale non pare suscitare un surplus empatico è proprio il fondatore di Facebook — troppo intento a ridere e scherzare con l’avatar di una collega per capire che, a occhi umani, quella intemerata aveva piuttosto il sapore amaro di una trovata di marketing di pessimo gusto.



In pieno stile Zuckerberg, le scuse sono poi arrivate in un messaggio su Facebook, ma gli scandali “fake news” e “dark ads” che hanno colpito e stanno colpendo l’azienda in questi mesi dovrebbero avere insegnato al fondatore che è meglio provare ad anticipare gli effetti negativi delle rivoluzioni tecnologiche che propone, invece di parare il colpo — più o meno brillantemente — una volta che la realtà presenti il conto alla propaganda aziendale. “Più potere abbiamo di condividere e fare esperienza di ogni sorta di cosa del mondo”, diceva Zuckerberg sempre sullo stesso palco, ma nel 2015, “migliore sarà il mondo”.

Il virtuale e la religione del connesso si integrano alla perfezione nella visione dell’uomo che governa le vite di due miliardi di persone. Se siamo “fondamentalmente sociali”, come secondo una tradizione di pensiero che viaggia a ritroso fino ad Aristotele, non c’è tecnologia di successo che non ci aiuti a comprenderci meglio, sostiene Zuckerberg. E certo, le previsioni per il settore sono rosee: da 6,4 miliardi di dollari oggi a 40 nel 2020, secondo Statista, fino a 48,5 nel 2025, nelle stime di Grand View Research. Ma la diffidenza resta. E per quanto si immagini la comodità di parlare con un medico o prendere parte a una lezione in remoto, niente toglie dalla mente il sospetto che sia solo un altro modo per farci accettare diritti negati — quello di avere il tempo e il denaro di recarci dal medico, personalmente, o di frequentare la scuola dei nostri sogni.

Come per molti altri aspetti, l’utopia “social” di Silicon Valley e di Facebook sulla realtà virtuale è insieme un placebo per farci accettare, invece che curare, problemi e limitazioni sociali tutt’altro che virtuali. E se davvero, come vuole Zuckerberg, saremo presto un miliardo a indossare i device di Oculus, urge una controforza politica che ricordi a quei connessi ad altri mondi che il nostro, quello vero, non si difenderà da solo.