Se ancora servisse una prova del fatto che in questo paese il concetto di patriottismo è un punto nevralgico e contraddittorio del sentire comune, la si potrebbe trovare facilmente osservando la quantità di reazioni scaturite dalla riflessione a proposito della contrapposizione simbolica dei termini patria e matria. Le reazioni pubbliche sono state infatti in prevalenza polemiche, risentite, sarcastiche e non di rado insultanti, ma soprattutto sono state moltissime e trasversali, segno che la riflessione sulle contraddizioni del concetto di patria vale la pena farla ancora, senza timore di urticare. Nel riprenderla, la prima cosa che salta all’occhio è il rifiuto condiviso e assoluto di considerare possibile uno scarto di linguaggio. L’irritazione suscitata dalla sola ipotesi ribadisce che le parole non sono mai solo parole, ma dispositivi di controllo e dunque di potere. I nomi che diamo alle cose sono performanti: creano la realtà, la rimodulano e - quando si tratta di politica - finiscono per essere le cose stesse.
Se la proposta del termine “matria” ha fatto salire la temperatura degli interventi fino al calor bianco le ragioni immediatamente visibili sono due. Da un lato c’è una evidente mancanza di conoscenza del suo uso storico nel dibattito filosofico e politico, tanto che un numero sconcertante di commentatori ha pensato che lo avessi addirittura coniato io.
Dall’altro c’è un problema di accettazione del senso stesso della parola: matria appartiene al campo semantico della parola “madre”, che con evidenza richiama qualcosa di più disturbante del padre evocato in patria, il quale, non si capisce perché, dovrebbe invece essere rassicurante per tutti e tutte. È normale che molte delle reazioni violente all’idea del passaggio simbolico tra patria e matria siano provenute da commentatori, editorialisti e politici dell’estrema destra: essendo la riflessione mirata a mettere in discussione proprio l’idea di suolo e sangue da cui si alimentano i nazionalismi e i fascismi vecchi e nuovi, sarebbe stato sorprendente che non reagissero proprio i soggetti cresciuti a pane e patria.
Più interessante è invece analizzare la replica altrettanto virulenta che è provenuta anche da chi di estrema destra non è. Le obiezioni da quel fronte si sono concentrate sulla presunzione che matria fosse un tentativo femminista di fare del politicamente corretto, pensiero che svela come il sessismo sia un altro dei grandi nodi irrisolti di questo paese, anche a sinistra.
Madre/matria e padre/patria sono infatti categorie d’azione politica, non distinzioni di genere. Il fatto che molti commentatori abbiano pensato che mettendole in contrapposizione si volesse suggerire un governo delle madri/donne a dispetto del governo degli uomini/padri - ipotesi palesemente puerile - è indice non tanto di scarsa comprensione del testo, quanto di comunissima misoginia. Il terror sacro di un matriarcato rivendicativo pronto a sostituire il patriarcato indebolito è molto interessante e forse varrebbe la pena di chiedere a queste persone che cosa le spaventi tanto nell’idea di essere governati da donne.
Ma sarebbe un altro dibattito, non questo, e il fatto che molti abbiano preso l’uno per l’altro con così tanta immediatezza rivela l’esistenza di un pregiudizio sessista.
C’è un detto molto efficace per definirne la natura obnubilante: se uno ha la testa a forma di martello, tutto quello che vede gli sembreranno chiodi. È evidente che molti commentatori in questo caso hanno visto il chiodo dove il chiodo non c’era. Nei commenti dei lettori, negli articoli su altri giornali e sui post nei social media gli argomenti usati ruotavano infatti intorno - in progressione di banalità - al fatto che anche patria è una parola femminile, che esiste il termine madrepatria o che le donne al governo non si sono comportate mai meglio dei loro colleghi. Tutte ovvietà, ma di nessuna pertinenza con il fatto che patria e matria non sono camere civiche separate per sesso, ma modalità per definire l’appartenenza a una nazione: entrambi i termini mantengono piena valenza sia per gli uomini che per le donne.
Alla fine, al netto del misogino che teme il governo uterino e del neofascista che senza il suolo e il sangue non sa più chi è, resta il bisogno di ridefinire la cittadinanza (e quindi la patria) in un senso più efficace e inclusivo di quanto non facciano le categorie giuridiche e filosofiche del passato. Il legame futuro tra noi e il paese a cui apparteniamo dipenderà anche dalle parole con cui definiamo il presente e per questo cercarne di nuove è un lavoro politico tutt’altro che marginale.
La parola patria fin qui ha proceduto mano nella mano con l’identità, termine che ha la stessa radice di identico e che spinge a riconoscere l’altro per similitudine. Secondo questa visione ha diritto alla cittadinanza solo chi è identico a me, cioè chi come me parla, mangia, prega e si veste o accetta di imparare a farlo. Fare la guerra al velo delle musulmane in nome dei “nostri valori”, ingaggiare battaglie contro i kebabari nei centri storici in difesa del presunto cibo tipico o piazzare presepi in tutte le scuole per cercare di stabilire la supremazia morale delle nostre radici religiose sono atteggiamenti che vanno nella direzione della proiezione di sé nell’altro, ridotto a mero riflesso. In questo quadro l’integrazione passa inevitabilmente per l’assimilazione, perché impone allo straniero di sacrificare la sua differenza in cambio della nostra accettazione, salvo poi negargliela perché quel mimetismo non produce autenticità. Le identità negate generano la ricerca di identità più forti e purtroppo è pieno il mondo di identità violente in cerca di chi voglia riconoscercisi.
La categoria matria può invece contribuire a spostarci da quello scivoloso terreno e aprirci quello assai meno confinato dell’appartenenza. Se infatti l’identità presuppone l’esistenza e la condivisione di presunti marcatori originari - lingua, costumi, valori - l’appartenenza può dar vita a un patto sociale basato sulla volontà di riconoscersi a vicenda con differenze di pari dignità. Nell’una si nasce dentro, l’altra chiede di scegliere di quale destino sentirsi parte. Oltre lo ius soli e lo ius sanguinis, è tempo di considerare l’ipotesi che nelle nazioni che saremo la cittadinanza ce la si possa anche scegliere. Chiamiamolo ius voluntatis e se serve per facilitare il lavoro ai detrattori di neologismi, confermo: questo sì che l’ho inventato io.