Il momento autodistruttivo può servire come una prova da superare per raggiungere una precaria quanto inedita forma di felicità
Una parola, forse più di ogni altra, sembra in grado di gettare luce sul clima culturale in cui ci troviamo. “Masochista”, inteso in senso lato come «colui che si rifiuta di perseguire sempre e con ostinazione il proprio bene», sta sempre più diventando l’emblema stesso della decadenza etica e politica del nostro bel mondo neo-liberale. Chi porta avanti nella propria vita un sistema di valori e soddisfazioni diverso da quello dominante è nel migliore dei casi compatito. Nel peggiore sospettato di malafede, perversione o “pericolosità”.
Dai manuali per essere felici al life coaching, dalle molte psicoterapie funzionali alle sempre più diffuse versioni bignamizzate delle filosofie orientali, la ricerca della cosiddetta happiness sembra essersi trasformata in un angosciante imperativo morale. Un imperativo che si fa sempre più esigente a mano a mano che ci mettiamo al lavoro per soddisfarlo. Il tutto mentre la dilagante “infelicità” è sempre più vissuta come una grave colpa, o un imperdonabile errore individuale, che avvertiamo l’urgenza di imputare il prima possibile la “colpa” a qualcuno, indifferente se a noi stessi o agli altri.
E se la causa dell’infelicità, dell’insoddisfazione, della frustrazione, della polverizzazione dei rapporti umani che perseguitano il nostro disagio della civiltà non fosse - in realtà - né completamente nostra, né degli altri? Se le ragioni di questa frustrazione fossero strutturali? Una considerazione apparentemente banale, quasi naïf, del “folle” Friedrich Nietzsche, potrebbe offrirci una prospettiva spiazzante sulla questione.
Nei “Frammenti postumi” Nietzsche scrive: «Posto che tutto ciò che l’uomo “conosce” non soddisfi i suoi desideri, ma piuttosto li contraddica e li spaventi, quale divina scappatoia per lui continuare a cercare la colpa di tutto ciò nel “conoscere” e non, invece, nei suoi “desideri”». Nietzsche sembra suggerirci che le ragioni della nostra cronica insoddisfazione sono da ricercare nella struttura stessa dei nostri desideri (che sono altra cosa dai bisogni). Se infatti osiamo passare in rassegna i desideri più scontati e banali che spontaneamente ci abitano (una bella carriera lavorativa, una bella famiglia, un posto accogliente dove vivere, una vita sociale e sessuale soddisfacente) ci imbattiamo con sorpresa nel fatto che il loro comune denominatore è quello di essere tutti delle “emanazioni” di un’idea di noi stessi a cui sentiamo di dover corrispondere.
Anche se la cosa può apparirci vertiginosa, dovremmo forse imparare a considerare un “desiderio” come qualcosa che stiamo già vivendo nella carne e nella vita, e non come una vagheggiata progettualità, né come un fine o uno scopo mentale per cui dobbiamo approntare dei mezzi. Solo dopo esserci “scontrati” con i desideri che siamo, ora, in atto, possiamo porci successivamente il problema di decidere “razionalmente” se sia il caso o meno di dedicare loro tutto noi stessi.
[[ge:rep-locali:espresso:285132651]]Nel momento in cui i nostri “veri” desideri prendono vita, infatti, noi non siamo mai lì “dietro” a progettarli. I desideri, piuttosto, ci giocano, noi li siamo, con il nostro corpo, con le nostre scelte automatiche o semi-consapevoli, nel vivo dei nostri rapporti umani. I nostri desideri ci precedono, ci sono, anche (e soprattutto) quando ci fanno “stare male”. E questo, comprensibilmente, ci fa paura. Ci spaventa perché non siamo abituati a credere che nello “stare male” e nel “farsi del male” ci possa essere, a volte, anche qualcosa di prezioso (e persino di angosciantemente delizioso); qualcosa capace di aprirci la strada all’incontro di una parte di noi stessi che non riuscivamo - o non volevamo - vedere.
In “Fight club”, il film di David Fincher tratto dal romanzo di Chuck Palahniuk, abbiamo un esempio di come a volte “farsi del male” rappresenti un “rito di passaggio” per comprendere qualcosa di noi stessi. Proprio mentre sembra giunto all’apice di una dignitosa carriera, aver trovato una bella casa e averla arredata secondo il miglior gusto Ikea, il protagonista del film comincia a soffrire di una grave psicosi. La psicosi si manifesta sotto forma di un alter ego, partorito dalla sua mente, che mette in crisi le sue flebili certezze neoliberali (prima tra tutte quella che la felicità risieda nell’automiglioramento e nella realizzazione di sé). Il protagonista, sempre più in balia del suo doppio, distrugge la sua casa, lascia il lavoro e va a vivere in una stamberga dove fonda un club (tutt’altro che immaginario) in cui le persone possono sfogare sado-masochisticamente l’(auto)aggressività che solitamente sublimano attraverso i deboli compromessi nevrotici.
A un certo punto il “Fight club” vive un’impennata politica, trasformandosi in una società segreta che compie azioni terroristico-dimostrative contro i simboli del potere capitalista. L’obiettivo finale del “Progetto Mayhem” è quello di far crollare tutti i palazzi del potere della città, senza porsi troppo il problema di eventuali vittime innocenti. Nel finale del film – che Fincher trasforma rispetto a quello più pessimista, di Palahniuk - il protagonista si oppone alla possibile carneficina, realizzando finalmente che il malvagio rivoluzionario di cui è in balia non è altri che lui stesso; capisce che la pistola con cui il suo alter ego lo tiene sotto tiro in realtà è nelle sue mani, e che per “sconfiggerlo”, deve rivolgerla contro se stesso. Il folle gesto non lo uccide, ma anzi lo libera dalla “malattia” e dal suo doppio psicotico, restituendogli addirittura - nel finale - l’ironia tipica del “vero” masochista. Il protagonista infatti, col volto ancora sanguinante per essersi sparato, dice sibillino alla donna che ama e che lo ha seguito in quell’incubo: «Mi hai conosciuto in un momento molto strano della mia vita». Mentre i due - tenendosi per mano, sulle note di “Where is my mind” dei Pixies - osservano dall’attico i palazzi del potere crollare senza che nessuno, oltre a lui, si sia fatto del male.
Molti importanti pensatori hanno riflettuto sulla frustrazione e sulla profonda infelicità che la versione occidentale del migliore dei mondi possibili sembra produrre in maniera sempre più marcata ed esponenziale.
Jacques Lacan è stato forse il più acuto. Lo psicoanalista francese ha analizzato finemente la logica sottesa al discorso dominante in cui siamo immersi: il discorso del capitalista. Questo “discorso” non è, per Lacan, il discorso svolto in prima persona dai cosiddetti “capitalisti”, bensì una serie di impercettibili connessioni logiche di cui tutti ci rendiamo quotidianamente e inavvertitamente partecipi. Una di queste connessioni è, ad esempio, quella che ci fa credere di sapere (in anticipo) cosa desideriamo; un’altra è quella che ci fa sembrare ovvio che un “desiderio” sia semplicemente un pensiero cosciente a cui si accompagna una sensazione di piacere; un’altra si annida addirittura nella grammatica stessa di molte lingue europee, e riguarda la semplice proposizione “il mio corpo”, in cui è inavvertitamente condensata un’intera (criticabilissima) filosofia dell’uomo. “Il mio corpo” implica infatti che il corpo sia una proprietà esclusiva della supposta “mente” che, da dentro, lo governerebbe come il pilota di un’astronave di carne. Ma come non vedere che, mentre parlo, per deviare da questo discorso dominante, ciò che logicamente dovrei dire è piuttosto “il corpo che sono”?
Lacan ha mostrato come queste connessioni “logiche”, che diamo per scontate, producano automaticamente - e proprio per mezzo dei desideri (“belli”, “coscienti”, “edonistici”) che socializziamo - una speciale frustrazione, una forma di infelicità attraverso cui tutti “masochisticamente” ci soddisfiamo. Basti pensare allo stress, di cui tutti ci lamentiamo, ma che sarebbe facile evitare, se lo solo lo volessimo davvero. O a tutte le varie fobie di cui ci serviamo (inconsapevolmente) per coprire angosce esistenziali molto più profonde e inquietanti. Nello svolgere queste impopolari considerazioni Lacan ha preso alla lettera le scoperte freudiane dell’ “Al di là del principio di piacere”, del “Problema economico del masochismo” e del “Disagio della civiltà”. Durante il decennio che racchiude questi testi, il padre della psicoanalisi si è infatti trovato costretto ad ammettere (con orrore) che la soddisfazione delle più elementari pulsioni umane si produce per mezzo di uno scarico di aggressività rivolto verso se stessi (o, secondariamente, verso gli altri).
Il problema, osserva
Freud nell’ “Al di là del principio di piacere”, è che le persone raramente riescono ad ammettere a se stesse di soddisfarsi per mezzo di pratiche che avvertono coscientemente come spiacevoli. Alcune forme di anoressia, ad esempio, sono apparentemente innescate e nutrite da un desiderio edonistico, e “agonistico”, di essere in forma (e più in forma degli altri). Questo desiderio cosciente e apparentemente “positivo” ha però, in alcuni casi, la sola funzione di ricoprire un desiderio in atto di tutt’altro tipo: un desiderio di autodistruzione, che nei casi di anoressia è mostruosamente soddisfatto dall’effettivo deperimento fisico. In questa dinamica, per quanto la cosa possa apparire paradossale, una persona potrà placare il proprio istinto di morte solo quando ammetterà a se stessa che, fino a quel momento, ha goduto profondamente nel “farsi del male”. Riconoscerci come gli artefici, e non più come le vittime, delle nostre sofferenze spesso significa che stiamo già meglio, che stiamo già cambiando strada.
Anche il protagonista de “La venere in pelliccia”, il più celebre romanzo di Sacher-Masoch, giunge a questa conclusione. Severin si scopre infatti guarito dalla sua morbosità proprio grazie alla “lezione” impartitagli dalla donna a cui si era dolorosamente, ma liberamente, sottomesso. Quando Severin subisce dal nuovo amante di Wanda (e per suo volere) una violenza che non desidera, questo “abuso” gli permette di aprire gli occhi su quanto il suo presunto “masochismo” avesse poco a che fare con una banale erotizzazione del dolore, e su quanto esso fosse, piuttosto, una perversa strategia seduttiva con cui sperava di tenere legata a sé la donna che amava.
L’imperativo a “fare il nostro bene”, e le sue declinazioni pratiche, non si presentano mai nella vita delle persone reali nella forma banale e semplificata contrabbandataci dalla filosofia sensista britannica e dall’american way of life. La reale alternativa che abbiamo a disposizione è forse quella tra due “masochismi”: uno buono e uno cattivo. Il primo, buono, è quello che solitamente evitiamo per paura, per “convenienza” o per moralismo. Il secondo, cattivo, è invece quello che spesso ci si presenta sotto le mentite spoglie di una razionale, “sana” e interessata scelta egoistica; una scelta, apparentemente “conveniente”, che ci protegge dall’incontrare la parte “cattiva” o “malata” di noi stessi. Quel che rimane invisibile è che l’imperativo a fare il “nostro” bene è diventato la nostra nuova “voce della coscienza”, una voce che, da dentro, ci giudica e ci governa. La spasmodica ricerca della soddisfazione, lo pseudo-edonismo della pedagogia autoimprenditoriale, la retorica del “volersi bene”, a ben vedere, sono una larvata forma di masochismo (per di più “cattivo”). Sono dei palliativi, dei “bei desideri”, che ricoprono un desiderio in atto di tutt’altro tipo, che ci sforziamo di non vedere: il desiderio di essere frustrati, sfruttati, medicalizzati, pedagogizzati.
Se così fosse, potremmo concluderne che fare il “proprio male” - cioè deviare dalle forme di soddisfazione scandite dalla nuova “voce della coscienza” che ci abita - potrebbe rivelarsi un’inedita forma di resistenza politica. È possibile infatti che, come già diceva Nietzsche, i supposti confini “naturali” tracciati tra piacere (bene) e dolore (male) individuali non siano altro che un raffinato strumento di governo degli individui. Ma cosa può significare allora, e che forma può avere, l’apparente paradosso di un masochismo “buono”? Se torniamo per un momento ai due finali, di Fincher e di Sacher-Masoch, possiamo dire che il masochismo “buono” è quello che sa servirsi del momento autodistruttivo come di una forma di resistenza politica. Ma, soprattutto, sa riconoscere in essa un “rito di passaggio”, una prova, una paradossale possibilità di cura, capace di aprire un varco verso una precaria, zoppicante, ma del tutto inedita felicità. n
na parola, forse più di ogni altra, sembra in grado di gettare luce sul clima culturale in cui ci troviamo. “Masochista”, inteso in senso lato come «colui che si rifiuta di perseguire sempre e con ostinazione il proprio bene», sta sempre più diventando l’emblema stesso della decadenza etica e politica del nostro bel mondo neo-liberale.