Forse non è la felicità / ciò che voglio / ma un percorso per raggiungerla / un alpinista che non vorrà quella vetta / ma il solo rischio di cader giù», cantano i Fast Animals and Slow Kids, solido gruppo rock perugino, nel brano che dà il titolo al nuovo album “Forse non è la felicità”. «Si fa un gran parlare della felicità in questi tempi moderni, si pensa a come raggiungerla e a come preservarla una volta che la si ha tra le mani. Ecco, questo è il nostro modo per dire che tutto ciò fondamentalmente non ci interessa», dice il cantante e frontman della band, Aimone Romizi, schierandosi dalla parte di chi ha più a cuore il tragitto rispetto alla meta.
La felicità è una chimera evanescente e fragile, ecco perché tutti la bramano. “Eudaimonia” la chiamava Aristotele per distinguerla dall’edonismo, il piacere immediato. Proprio perché tende a sfuggire risulta così preziosa: non a caso, la parola oggi è onnipresente al cinema e nella letteratura, nella saggistica e nella manualistica. Nel romanzo “La felicità è una storia semplice”, presto nelle librerie per Einaudi, Lorenza Gentile racconta la storia di Vito Baiocchi, quarantenne fallito e strampalato sull’orlo del suicidio, costretto dalla nonna dispotica ad accompagnarla fino in Sicilia. Un viaggio interminabile in cui niente va come dovrebbe: ma quando tutto sembra perduto Baiocchi capisce che deve prendere in mano la propria vita e sforzarsi di credere nella felicità.
Dalla fiction alla realtà il passo è breve: il verbo magico spopola nel marketing delle facili promesse - i corsi online e i tutorial che assicurano benessere e appagamento in poche mosse - e in libri come “Imparare la felicità” (Franco Angeli editore) di Roberta Bortolucci, che nelle intenzioni dell’autrice vuole «far capire perché molte volte non siamo felici, quali pensieri e comportamenti ci allontanano, quali strumenti e tecniche possiamo invece mettere in campo per acquisire comportamenti mentali positivi e una maggior capacità nel recepire la felicità».
Mentre in India un governatore lancia il primo “festival della felicità” e a Bologna viene fondata una start-up per “accelerare il benessere” (si chiama 2BHappy), nascono nuove figure professionali come il “mental coach”: un po’ psicologo un po’ sciamano, aiuta i clienti a raggiungere un obiettivo di carriera o a migliorarsi nella vita di tutti i giorni, affianca un atleta nell’allenamento o rigenera campioni dello sport. Come nel film “Mister Felicità”, la nuova commedia record di incassi firmata Alessandro Siani, in cui l’attore e regista napoletano interpreta Martino, un giovane che si finge l’assistente del dottor Guglielmo Gioia (Diego Abatantuono), un mental coach che cerca di infondere ottimismo e ridare fiducia alle persone in crisi.
In realtà, a guardarsi attorno, in Italia il benessere scarseggia. E i soldi non faranno la felicità, ma certo aiutano. Quasi metà delle famiglie non riesce a far quadrare i conti, rivela l’Eurispes nel Rapporto Italia 2017, e rispetto al 2016 si è ridotto del 10 per cento perfino il numero degli italiani che possiedono un animale domestico (oggi il 33 per cento), dettaglio curioso e significativo. Mentre l’ultimo Rapporto Censis fotografa un Paese di “rentier”, che dilapidano le risorse di cui dispongono senza proiezione sul futuro.
FELICITÀ D'ITALIA
In un’epoca incline al pessimismo, c’è chi invita a ripartire dalle basi più sane della nostra civiltà. E lo fa ricomponendo i tasselli che hanno reso il nostro Paese speciale agli occhi di chi lo visita. Si intitola “Felicità d’Italia” (in uscita per Laterza) il nuovo saggio di Piero Bevilacqua. Secondo lo storico, che si muove sulle orme del filosofo ottocentesco Carlo Cattaneo, padre del federalismo, i capisaldi del Belpaese sono quattro, tutti elaborati dal basso, dal popolo: l’alimentazione, fondata sull’originalità dell’agricoltura italiana; le città, con il loro patrimonio di bellezza, che per secoli hanno costituito la forma più alta di organizzazione della vita sociale; la musica e la canzone, immaginario poetico popolare; la tradizione cooperativa, che ha dato un’impronta di egualitarismo sociale. Quest’ultimo punto è particolarmente significativo e, nella visione di Bevilacqua, segna la distanza tra felicità e individualismo, termini che spesso tendono a confondersi.
«Dopo trent’anni di neoliberismo, che ha messo al centro l’individuo, appare chiaro che l’edonismo porta all’infelicità e all’anomia della società», spiega il professore, che punta l’indice contro i disvalori contemporanei: i rapporti umani superficiali, i sentimenti volatili, la competizione esasperata. «Un individuo che galleggia in questo mare in tempesta è disperato, in perenne gara con l’amico, il collega. Deve dare sempre il meglio di sé, perché questo richiede la cultura dominante: la normalità è proibita», aggiunge Bevilacqua. Il nostro patrimonio secolare è minacciato, degradato e usurato, ma i danni forse non sono irreparabili. E la via di uscita, a detta dello storico, è il contrario del solipsismo.
«Gli italiani devono riscoprire la dimensione del conflitto organizzato. Solo chi lotta contro le ingiustizie prova speranza, che è un elemento della felicità. Impegno politico e felicità individuale si toccano», conclude il professore: «Difendere nei territori spazi alternativi di produzione e consumo non dominati dall’ossessione del profitto, costruire aree di gratuità, di cooperazione solidale vuol dire far fiorire nuove logiche sociali all’interno dell’economia di mercato».
NARCISISMO 2.0
Impresa complicata, ai tempi di Facebook, riscoprire la dimensione collettiva della felicità. I social media condizionano la formazione dell’identità individuale, consentono a chi li frequenta di elaborare una rappresentazione virtuale di sé, l’online sconfina sempre più spesso nell’offline. Il narcisismo, in molti casi, prevale sulla condivisione.
E la gioia diventa una bandiera da ostentare, una cortina fumogena che serve a celare le proprie fragilità, in una sorta di perenne “Happism 2.0” come lo definisce Bruno Rossi, docente di Pedagogia generale all’università di Siena, nel libro “Pedagogia della felicità” (Franco Angeli editore). «Internet, ma soprattutto i social network, si configurano come il primo contesto sociale capace di dare una risposta alle richieste di soggetti infelici: isolati, separati, antisociali, bisognosi di fuga e di evasione dalla realtà esterna, nonché da quella interiore. Tali mezzi tecnologici alimentano e sostengono così un ambiguo senso di felicità», dice Rossi, che si concentra sulle motivazioni che spingono le persone a frequentare assiduamente le piattaforme di condivisione sul web. Si crede di riempire il quotidiano di utopie e fascinazione, sostiene il professore, «di travestirlo di magia, così da poterlo vivere senza interferenze etiche, senza legami sociali vincolanti, senza identificazioni collettive impegnative e soffocanti, senza traguardi e senza radici. In questo modo, si ritiene di approdare al lido della felicità».
Ma si può imparare l’arte di essere felici? Si può coltivare, è un traguardo raggiungibile? Il professore prova a delineare un percorso virtuoso, che non ha nulla a che fare con ricette allettanti, vademecum, seduttivi manuali di self help. In sostanza, la felicità dipende dalla capacità di costruire la propria vita in maniera autentica. «Oggi più di ieri la persona deve coraggiosamente dire no all’effimero, all’inautentico, al mediocre, al banale, al deteriore, al convenzionale, al volgare», incalza Rossi, che invita a evitare facili scorciatoie. «La felicità non è un’emozione di breve durata come la gioia, con la quale è imparentata, bensì un sentimento di lunga durata. La si guadagna nel corso dell’intera esistenza».
LA GIOIA DEGLI ALTRI
Non è detto che il percorso verso la felicità sia costellato di grandi gesti e svolte clamorose. Per cambiare prospettiva basta imparare da altre culture, sugli scaffali delle librerie l’offerta è notevole. Nel libro “La via. Un nuovo modo di pensare qualsiasi cosa” (Einaudi) Christine Gross-Loh e Michael Puett, professore di Storia cinese ad Harvard, attingono alle opere dei grandi filosofi della Cina classica: Confucio, Mencio, Laozi, Zhuangzi, Xunzi, alcuni dei quali vissuti oltre duemila anni fa. Pensatori che insegnano a concentrarsi sulle trasformazioni di tutti i giorni e a migliorare le relazioni con gli altri.
Mentre dalla Danimarca arrivano altri suggerimenti: i danesi da quarant’anni sono il popolo più felice del mondo (l’Italia è cinquantesima) secondo il Rapporto mondiale della felicità stilato ogni anno dall’Onu. Come racconta Marie Tourell Søderberg nel manuale “Hygge. Il metodo danese per vivere felici” (Newton Compton), scritto con Katharine Hoite Lynggaard, il segreto è in questa parola che si potrebbe descrivere come la sintesi di intimità, calore, accoglienza. La capacità di creare un ambiente che faccia sentire i familiari a proprio agio: la hygge significa accendere candele, cucinare tutti insieme, decorare la casa, spegnere i cellulari e fare un gioco da tavolo, raccontare a turno com’è andata la giornata. Sembrerebbe solo buon senso, ma alzi la mano chi lo fa tutti i giorni.
E per spiegare questo primato nella classifica della felicità c’è chi parla di “metodo danese” anche per l’educazione dei più piccoli. La giornalista americana Jessica Alexander, due figli, sposata con un cittadino danese e residente a Roma da oltre dieci anni, ha scritto insieme a Iben Sandhal il libro “Il metodo danese per crescere bambini felici” uscito per Newton Compton (pubblicato in 21 Paesi, in Italia ha già venduto 30mila copie) che è anche un sito online in italiano (ilmetododanese.com).
Una miniera di suggerimenti, come ad esempio evitare gli ultimatum, usando un approccio più democratico che serve ad aiutare i bambini ad avere più fiducia; puntare sull’autenticità, perché la sincerità crea una maggior consapevolezza di sé, sull’empatia, sul senso di comunità e, naturalmente, sulla hygge. «Essere genitori è il mestiere più difficile del mondo, ma si può imparare attingendo ad altre culture. Il mondo oggi è più globale», dice l’autrice del libro. «Negli Stati Uniti e in Italia le giornate dei bambini sono piene di impegni. Bisogna invece creare spazi per il gioco libero, che crea adulti più felici, più equilibrati e resilienti».