Da quando è stata elaborata la celebre “piramide dei bisogni” dello psicologo statunitense Abraham Maslow (a metà degli anni Cinquanta) per “bisogno” ?si intende generalmente uno stato di tensione interiore dovuto alla mancanza di qualcosa connesso a esigenze fisiologiche (ad esempio la fame o la sete) o affettive, oppure a esigenze più ampiamente sociali (la stima ?degli altri, la reputazione, il successo etc).
Secondo il filosofo Herbert Marcuse i falsi bisogni sono quelli che vengono imposti all’individuo da parte di interessi economici o politici. Ma prima ancora che da “poteri esterni”, l’inganno nella creazione di bisogni potrebbe provenire dallo stesso sistema cognitivo delle persone, che produce “bug” inconsapevoli e quindi ci depista. Questo è almeno quanto emerge dalle ricerche commissionate dalle aziende per verificare il grado di soddisfazione di un loro prodotto-servizio e basate sul confronto fra i desideri dichiarati e la “human experience”.
In questi casi emergerebbe una differenza tra quello che una persona indica a parole come bisogno e ciò che invece, sulla base del suo vissuto e dei suoi comportamenti si evidenzia come elemento che gli dà reale soddisfazione.
Questo tipo di meccanismo ingannevole è chiaro quando le persone sono affette da qualche forma di dipendenza: queste infatti avvertono un bisogno da ciò da cui dipendono (alcol, droga, fumo, gioco etc) che è tuttavia in contrasto con i bisogni “veri”, che garantirebbero a quelle persone una qualità della vita migliore. Meno chiara è la dinamica interiore che porta persone sane a fare scelte sbagliate nel decidere quale bisogno soddisfare, quale acquisto scegliere, quale strada percorrere per avvicinarsi ?a una condizione di maggiore felicità e armonia.
Questi bug sono talmente diffusi da non essere considerati patologici, ma i loro effetti in termini esistenziali avrebbero conseguenze non indifferenti nel raggiungimento di una buona qualità della vita. Si tratta di qualcosa di simile a quelle che lo psicoterapeuta americano Wayne Walter Dyer battezzò a metà degli anni Settanta “zone erronee”, in un suo famoso libro. Dyer si riferiva ai meccanismi fuorvianti che la mente mette in pratica nelle relazioni affettive, ma ?la dinamica ha molti aspetti in comune con i bug (Dyer li chiamava “vermi”) che ci depistano nelle piccole e grandi scelte finalizzate a realizzare ogni giorno i nostri bisogni.
Questa scarsa consapevolezza razionale di ciò che ?ci darebbe una maggiore “felicità” comporterebbe ?una difficoltà di traduzione dei nostri bisogni reali nel linguaggio, nel dichiarato. In altre parole, porta spesso ?le persone a non sapere descrivere la verità del proprio bisogno. Che emergerebbe invece meglio sulla base dell’osservazione (o dell’autosservazione) dell’esperienza, vale a dire attraverso il monitoraggio dei comportamenti ricorrenti delle persone.
Ecco perché nell’analisi di ciò ?che dà soddisfazione e ciò che non la dà, la disciplina ?di riferimento delle imprese diventa sempre di più quella dell’etnografia sociale, dello studio dei comportamenti. ?E questa viene sempre più utilizzata per una maggiore comprensione dei bisogni delle persone bypassando ?la razionalizzazione verbale, tanto più quella che avviene nei classici focus group.
Finora, come si diceva, questo cambiamento di metodo nell’identificazione dei bisogni è stato utilizzato soprattutto dalle imprese, in cerca di feed-back sui propri prodotti ?da parte dei cittadini-consumatori. Non sarebbe strano tuttavia se tracimasse ad altri ambiti, come quelli politici o perfino religiosi: essendo anche i partiti (e talvolta ?le chiese) soggetti il cui successo dipende anche ?dalla capacità della loro “offerta” di soddisfare i bisogni dei cittadini-elettori (e dei cittadini-credenti).
E c’è chi ipotizza che la diffusione di questo sistema ?di misurazione della felicità, sul lungo, possa mettere in discussione la dinamica stessa su cui si regge l’economia, evidenziando la scarsa correlazione esperienziale tra soddisfazione esistenziale reale e bramosia d’acquisto. Il che porterebbe a un ulteriore paradosso: quello di una tecnica affinata dalle aziende - dai produttori di beni o servizi - che finirebbe per ritorcersi contro il consumo imponderato di beni e servizi.