Autoscatti in galleria. Quadri famosi da imitare. Curatori che cambiano le opere come fossero arredamento. Esporre l’arte oggi è una sfida agli studiosi. Per conquistare il pubblico
Chi vincerà il concorso di bellezza lanciato dalla Galleria Nazionale d’Arte Moderna di Roma? Quale ritratto meriterà il titolo di Miss Galleria? Sarà l’intensa lettrice di Vittorio Corcos, la signora Luce Balla dipinta dal padre o Palma Bucarelli immortalata da Savinio? E tra i volti maschili? Affascinano più le scompigliate chiome di Verdi visto da Boldini, il sorriso del giardiniere di Van Gogh o il languore del principe Aleksandr Ivanovic Barjatinskij?
Lo sapremo a fine marzo, ma intanto l’inusuale gara tra capolavori del nostro museo, lanciata dal pop artista Paco Cao e pubblicizzata dalla direttrice Cristiana Collu in un programma di Canale5 di fronte ai perplessi Gerry Scotti e Maria De Filippi, ha gettato benzina sul fuoco. O meglio, su un incendio di polemiche già esplose con il riallestimento delle collezioni, le dimissioni di due membri del comitato scientifico e le divisioni inconciliabili del mondo dell’arte schierato in violenti pro/contro.
Vista dalla parte dei “contro”, la nuova Galleria che gioca con le opere in tv, rimbianca le pareti, spettina le cronologie, accosta opere per salti diacronici, matrimoni puramente visivi, improvvisi corto circuiti, è un insulto alla missione stessa del “museo”, luogo che il Codice dei Beni Culturali (nell’articolo101) definisce «struttura permanente che acquisisce, cataloga, conserva, ordina ed espone beni culturali per finalità di educazione e di studio».
Visto dai “pro”, invece, la rinuncia al vecchio e casalingo acronimo di Gnam, alle quadrerie incorniciate, alle boiseries di rovere ma anche al tranquillo procedere cronologico e tematico delle sale, è la rottamazione di una polverosa idea museale e accademica, finalmente sconfitta da una nuova sensibilità che invita a guardare le opere nude e libere dalle catene della Storia.
La polemica cresce. S’incarna negli intellettuali di riferimento. Scivola nel web. E mentre la direttrice Collu si difende col “silenzio stampa”, Alessandro Baricco in un entusiastico post su “Vanity Fair” scrive: «Si entra e per minuti si sta in centro, guardandosi attorno e cercando di capire cos’è che tiene insieme tutte quelle cose: alle volte se ne ha come un presentimento, altre non si arriva proprio da nessuna parte, e allora si cambia sala. Non una scritta, non un titolo, aiutano nell’operazione: cosa che ho trovato, sinceramente, sublime. Adoro quando invitano il mio cervello a cucinare invece che servirgli la cena a tavola».
Ma a spegnere tanto entusiasmo è la fredda analisi di Jolanda Covre, stimatissima docente della Sapienza di Roma che insieme al collega Claudio Zambianchi ha preferito dimettersi dal comitato scientifico della Galleria piuttosto che condividere il nuovo corso. E ha spiegato che non intende sottoscrivere il dilagante «“curazionismo” dove l’installazione del curatore creativo soverchia gli artisti. Un metodo che ha sostituito il rigore scientifico, premiando l’indifferenza per la storia, prerogativa di un postmoderno ormai superato. La storia è un concatenamento di eventi, se levi un pezzo non si comprende più il senso».
Tra i litiganti il pubblico gode e accorre. Sarà la polemica che ha attirato l’attenzione dei media o la nuova ricetta espositiva ma di certo i numeri premiano questo “Time out of Joint”, un “tempo fuori asse” come dice il titolo della messa in scena nella nuova galleria. Ed è un pubblico nuovo armato di smartphone più che di guida, composto da art addicted digitali più che scolaresche, sempre pronto a un selfie e a un’immediata condivisione Instagram o Facebook. Un pubblico anche lui fuori dai cardini codificati, gente con cui fare i conti e che sta cambiando il Dna stesso del museo. Ovunque nel mondo - dai convegni tra direttori europei promossi dalla Tate Modern nell’appena inaugurata Switch House agli incontri che celebrano quel Beaubourg che quarant’anni fa, come dice oggi Renzo Piano, «alterò per sempre la sacralità del museo» - si discute violentemente su quale sarà la casa degna delle Muse dell’era digitale.
Da una parte molte istituzioni americane (seguendo l’esempio dello Smithsonian Museum in Washington Dc) in nome della serietà scientifica hanno cominciato a vietare l’uso di smartphone e selfie stick , dall’altra a Napoli in quel di Capodimonte, custode di Masaccio e Caravaggio, se ne incentiva l’uso con il#museumselfieday, gioco di società che invita i visitatori a mimare i quadri e condividere sui social i loro “tableaux vivants” al grido «diventa anche tu protagonista e promotore di bellezza».
La metamorfosi, però, è ancora più profonda e riguarda l’essenza stessa di tanto luogo: ovvero la collezione permanente. All’inizio di tutta questa storia, infatti, c’è un gruppo di antiche statue in bronzo (mitica Lupa compresa) che nel 1471 papa Sisto IV donò al popolo romano ed espose in Campidoglio. Ora, per quanto il museo nel corso dei secoli sia divenuto sempre più occasione di mostre, eventi, socialità, incontro e intrattenimento vario, la collezione corredata da didascalie, cronologie, guide e sale tematiche era finora rimasta la sua carta d’identità.
Finora, appunto, perché ascoltando Andrea Viliani, direttore del Madre di Napoli, si comprende che il museo del XXI secolo più che di quadri esposti ha bisogno di confrontarsi con una cultura visiva estremamente mobile, volatile, ibrida: «In un mondo in cui si cambia immagine con un dito, si accostano in una frazione di secondo oggetti d’arte lontanissimi geograficamente e storicamente, si vola sulle iperconnessioni e sono stati rivoluzionati gli scenari, i nessi logici, i nostri gesti, è legittimo che un direttore sfidi l’istituzione chiedendole di essere più avventurosa. Così come è necessario reinterpretare e persino sconvolgere un ordine dato per vedere e rivedere, conoscere e riconoscere cose che erano date per scontate. Il museo deve diventare un luogo di meraviglie e non una scatola di certezze».
Compito finora assegnato soprattutto agli artisti, veri maestri nello sconvolgere un ordine dato. Lo sa bene Udo Kittelmann, nel 2004 direttore del MMK (Museum of modern kunst) di Francoforte, quando permise alla Sturtevant, celebrata artista concettuale americana, di rifare a modo suo tutte le opere in collezione e sostituirle agli originali. Così per tutto il tempo della sua mostra, il pubblico visitò un intero museo di falsi/veri che per la Sturtevant era un modo di superare l’idea di proprietà intellettuale, copyright, mito dell’artista demiurgo e unico, ma che passò alla storia del contemporaneo per le dimensioni dell’operazione e per le inevitabili polemiche intorno alla insoluta domanda: «Fino a che punto è lecito violentare la Storia?»
«Non è mai lecito», è in sostanza la risposta di Zambianchi, docente di Storia dell’arte contemporanea alla Sapienza, uscito dal comitato scientifico in contrasto con il nuovo corso della Galleria Nazionale: «Né al Centre Pompidou, né alla Tate Britain», ci dice «e persino nella Tate Modern, che pure rivoluzionò le modalità espositive, si è mai rinunciato, come è accaduto a Roma, ad esaurienti didascalie e precisazioni metodologiche sui motivi di alcuni accostamenti. Perché se è vero che un direttore ha il diritto/dovere di lasciare un’impronta di sé nel museo, è anche vero che non può non tener conto della storia delle collezioni, del parere di un comitato scientifico e soprattutto non può estrapolare singole opere come fossero elementi di arredo».
Ma è anche altrettanto vero che in tempi di crisi, di sponsor che fuggono, di mecenati che scompaiono, di fondi pubblici ridotti al lumicino e di esposizioni che al contrario tra trasporti e assicurazioni costano sempre di più, la collezione permanente diventa per un direttore l’unica risorsa per attirare pubblico, denaro e attenzione mediatica. Così mentre i musei storici s’inventano riletture e coreografie, quelli contemporanei, nati su un’onda più effimera, puntano a costruire un loro patrimonio che rafforzi l’immagine del museo e diventi il suo tesoretto. Persino Viliani, che tanto difende l’avventurosa scelta della Galleria Nazionale, ha promosso un progetto dall’esplicito titolo “Per formare una collezione” (a cura di Alessandro Rabottini e Eugenio Viola). E una collezione per di più ancorata al territorio e a quel fondamentale ruolo di polo delle avanguardie internazionali che Napoli e la Campania tutta svolsero alla metà del Novecento, culminato con l’“incontro a Teano” tra la star dell’arte americana Andy Warhol e il leader della ricerca europea Joseph Beuys. Sulla stessa linea si sta muovendo anche il MaXXI concepito fino a ieri soprattutto come una macchina di eventi, attività e mostre anche molto diverse tra loro che arrivavano a comprendere nei liquidi spazi dell’architettura di Zaha Hadid eccentriche iniziative dallo Yoga alle lezioni di Ikebana (l’arte dei fiori giapponese), e ora ben intenzionato a fare della sua collezione il centro anche fisico dell’intero edificio.
Per paradosso, la raccolta di opere che i più giovani musei del XXI secolo si sforzano di costruire, viene smontata nei musei storici perché considerata un freno alla sensibilità del pubblico di oggi. Quel pubblico che vive nell’eterno presente del mondo digitale e che con difficoltà accetta di confrontarsi con la memoria, con la storia, con il passato. La visione di un quadro catturato dal cellulare e subito gettato in pasto ai social non è compatibile con il tempo necessario alla comprensione di un dipinto o alla lettura di una pagina della guida. E in questa schizofrenica situazione appare evidente che al centro della problematica non c’è tanto l’opera, né la collezione, né la riscrittura dell’arte e della storia dell’arte ma l’esigenza di conquistare l’occhio del visitatore. O meglio conquistarne soprattutto lo smartphone.