Il dibattito sulla post-verità ci costringe a metterci in gioco
Il tiro al bersaglio sul fenomeno ha prodotto un effetto collaterale: ha messo a nudo le fragilità della critica al relativismo. Mostrando come la nostalgia di un tempo in cui ci sarebbe stata la Verità sia perdente
L’inattualità è un’attitudine particolare, che consiste nell’aver ancora voglia di riflettere su di una questione quando i “professionisti dell’attualità” sembrano averla ormai smembrata ed esaurita. Rientra senz’altro in questa fattispecie il fulmineo e per molti versi grottesco dibattito sulla “post-verità”.
Negli ultimi mesi molti grandi e stimati “pensatori”, riflettendo sulla post-verità, si sono lasciati sedurre da un’antica e congenita allucinazione tipica del Filosofo e della Filosofia: credere che le idee, le cosiddette “filosofie”, abbiano la forza, il potere e il diritto di fondare e dirigere dall’alto la realtà politico-sociale, quando invece è sotto gli occhi di tutti che le cose funzionano esattamente al contrario.
Le cosiddette “filosofie” sono sempre in ritardo di un tempo rispetto alla vita reale, sono frutti tardivi, ed è forse proprio per questo motivo che alcuni importanti intellettuali se la sono presa così tanto con quell’uomo “medio” (o “infimo”) che, grazie a Internet e a quel che rimane della democrazia, ha cominciato a costruirsi a tentoni, ma autonomamente, le proprie “sciocche” post-verità. Questo atteggiamento di superiorità, in fondo, non è che il riflesso di una pratica “sociale” globalmente diffusa: la caccia all’ “ignorante”. “Ignorante” è diventato l’aggettivo passe par tout che posso affibbiare a tutti coloro che non riesco a capire, a tutti quelli che ritengo indegni di prendere la parola semplicemente perché non la pensano - o non si informano - come me.
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Se infatti, da un lato, sarebbe assurdo esaltare come un fatto positivo il propagarsi inarginabile di ogni sorta di bufale e falsità, dall’altro sarebbe altrettanto grave dimenticare che molte “verità” - anche quando sono certificate dalla scienza - diventano tali solo perché costruite dal basso e solo in virtù di un ampio consenso “popolare”. Come non ricordare a questo proposito l’inquietante fatto storico che, a cavallo tra Otto e Novecento, la teoria delle razze fu considerata - anche in molti ambienti di sinistra - una “verità” scientifica di tutto rispetto e praticamente inattaccabile?
Il tiro al bersaglio sulla post-verità ha prodotto l’inaspettato controeffetto di mettere a nudo tutte le fragilità, e il nervo scoperto, della cosiddetta critica al relativismo, rivelando fino a che punto la nostalgia - tristemente dominante - di un tempo in cui ci sarebbe stata la Verità sia oggi una posizione doppiamente perdente.
In primo luogo perché lamenta una crisi dei valori senza offrire alcuna alternativa reale, salvo quella (risibile) di una globale restaurazione di quelli precedenti. In secondo luogo, perché questa critica si traduce in un atteggiamento puramente difensivo, che funge da invidioso otturatore delle molte micro-iniziative che si sforzano di fare della verità qualcosa di nuovo, di diverso dal metaforico scettro con cui delle contrapposte élite - culturali, professionali e politiche - da sempre seducono e orientano il cosiddetto “volgo”.
A questo proposito Lacan amava dire umoristicamente, superando Nietzsche, che il nostro problema, oggi, non sta tanto nel fatto che dio sia morto - cosa di cui apparentemente non frega più molto a nessuno - ma nel fatto che Egli non lo sappia. Dio non sa di essere morto perché - nelle sue varie declinazioni ideologiche - Egli non è mai stato altro che il mio desiderio di delegare - almeno parzialmente - la vertiginosa responsabilità delle mie scelte individuali.
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Un esempio lampante di come questa nostalgia faccia letteralmente cilecca in molte situazioni pratiche della vita quotidiana, è senz’altro quello che concerne il mestiere “impossibile” del genitore. Per quanto io (genitore) possa ispirarmi ai più alti valori morali - dalla pedagogia alla politica, dalla Bibbia ai Diari della motocicletta - la responsabilità di quel che insegno a mio figlio, e la responsabilità di ciò a cui lo obbligo, sono mie e soltanto mie. Se qualcosa andrà storto, so molto bene che la responsabilità non sarà di Dio, del Che o di un manuale di psicologia, ma mia e soltanto mia. L’esperienza del genitore è forse l’esempio più concreto possibile per rimettere al centro del dibattito culturale una domanda fondamentale: “può esistere un’etica del relativismo?”
Si tratta di una domanda che forse non possiamo più rinviare, poiché il relativismo - esattamente come gli odierni flussi migratori - non è un fenomeno negoziabile; non è qualcosa che le nostre chiacchiere e la nostra nostalgia potranno un giorno far magicamente scomparire. Il relativismo ha una conseguenza “etica” ben precisa, di cui gli amministratori della Verità hanno - e hanno avuto in tutti i tempi - letteralmente orrore: la verità non è fatta per essere conosciuta e sancita da una cattedra, da un pulpito o dalle colonne di un importante quotidiano. La verità è fatta per essere inflitta e subita, quotidianamente, nei più minuti e banali momenti delle nostre esistenze; è fatta per essere “giocata”... ma questo ci fa male, ci angoscia, perché in fondo noi non vorremmo esserla, preferiremmo limitarci a essere i suoi portavoce, i suoi servitori. Vorremmo che la verità restasse qualcosa a cui possiamo appellarci, qualcosa che possiamo “dimostrare” e al contempo qualcosa che – in caso di fallimento – potremo in ogni caso rinnegare, espellere o maledire.
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Ma se vogliamo ancora osare dirci “democratici”, in un momento storico in cui questa parola sembra avere i giorni contati, dobbiamo accettare che la post-verità - se scegliamo di chiamare così l’eredità del relativismo - non è altro che la verità nuda: la verità una volta fatti i conti con l’orrore che proviamo nell’ammettere a noi stessi che non c’è alcuna garanzia ultima della “bontà” di ciò che insegniamo e di ciò per cui lottiamo.
Qualcuno la chiama anche la vertigine della responsabilità - qual è ad esempio proprio quella del genitore. La vertigine che mi impedisce di nascondere le mie scelte dietro al “vero” , al “giusto” o al “bene” dominanti e che mi obbliga a pagare fieramente, e in solido, fino all’ultima goccia di me stesso, per tutto ciò che dico, che faccio e che sono. Dietro alla grande paura che accompagna un’esperienza così vertiginosa, così invasiva, di noi stessi e di quello che potrebbe diventare la “verità”, potrebbero forse nascondersi una soddisfazione e un modo di relazionarsi con gli altri incomparabilmente più ricchi, più intensi - e forse addirittura più onesti - di quelli a cui finora ci siamo abituati.