Ricordi di una Siviglia non da cartolina, tra vie e giardinetti dai nomi ancora franchisti. Dove non c'erano mercati gourmet ma una moltitudine di personaggi da romanzo (Illustrazioni di Enrico D'Elia)

Siviglia, l'ospitalità della farfalla

A giudicare dalle fotografie della mia infanzia - foto scattate alla vecchia maniera, con pose rigide e lo sguardo dritto nell’obiettivo - sono vissuta in una Siviglia da cartolina: plaza de España e il Parco di María Luisa, la Cattedrale e la Giralda, i Giardini di Murillo e il quartiere di Santa Cruz, l’Alcázar e la Fabbrica di Tabacco. Negli anni Ottanta le fotografie erano riservate a momenti speciali, non si sperperavano rullini a casaccio. Ma quando arrivavano i nostri parenti da Madrid e allora ci mettevamo i vestiti della domenica e li portavamo a visitare luoghi che nemmeno noi conoscevamo. Mio padre prendeva la sua piccola macchina fotografica e io stavo sempre attenta a togliere gli occhiali prima di mettermi in posa. A giudicare da quelle foto uno non solo potrebbe pensare che passavamo tutto il tempo tra carrozze e grandi viali pieni di palme, ma anche che io, la più miope di tutti, nemmeno portavo gli occhiali. La verità adulterata.

Invece non ci sono foto del Cerro del Águila, il quartiere in cui ho trascorso gran parte della mia infanzia. Né del Cerro del Águila né di Rochelambert, Amate, Palmete, El Juncal o La Oliva, i veri scenari della mia vita dell’epoca, dove i miei fratelli e io giravamo, giocavamo, scappavamo e riflettevamo sulle difficoltà di quella strana cosa che è crescere. Guardo l’album delle fotografie ed è come se non fossimo mai stati lì: una grande ellissi, quell’assenza. Assenza di vie e giardinetti che all’epoca avevano ancora nomi franchisti - anche se per me General Moscardó era semplicemente un nome simpatico per via della somiglianza con “moscardón”, moscone -, della scuola “piovi” - pronunciato così perché ancora non conoscevo i numeri romani -, del mercato in cui non esistevano banchi gourmet perché nemmeno esisteva la parola “gourmet”, delle superiori all’interno dell’edificio di un antico mattatoio in stile neomudéjar tra le cui mura, poco più avanti, l’adolescente in cui mi trasformai scoprì il brivido dei primi baci con la lingua.

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Devo spremermi le meningi per recuperare i ricordi e non perderli nell’andirivieni di ciò che venne dopo. Mi sforzo di recuperarli e scriverli come chi ripone i pezzi di una collezione: la parola è lo spillo con cui fisso la farfalla nella sua teca. Sono consapevole del raro - e complicato - privilegio di poter trasformare in un racconto ciò che era un frammento del passato che ormai non significa più niente per nessuno. Una sorta di archeologia simbolica, la mia. Ma non voglio lasciare la farfalla lì ad ammuffire, morta. Voglio che riprenda a volare, anche se in altro modo. Voglio che da lei rinasca un’altra storia, voglio metamorfizzarla, non ho intenzione di ricalcarla, non sono un medico legale. Ora, mentre scrivo, rivolgo lo sguardo indietro verso la Siviglia nascosta che non si vede nelle mie fotografie, verso quei quartieri incredibilmente vivi, popolari, umili e vocianti, verso gli inverni senza riscaldamento e le estati delle vecchie sedute in strada davanti alle porte di casa, a spaventare pipistrelli e a urlare ai nipoti che giocavano mezzi nudi sui marciapiedi. Esco a cacciare farfalle e oggi, nella mia rete, ho catturato Matilde.

La signora Matilde. Quanti anni avrà avuto quando io ero una bambina? Mi è sempre sembrata vecchia. Una vecchia un po’ pazza, senza dubbio inoffensiva, ma da cui bisognava mantenere una certa distanza. La sua casa - la sua minuscola e miserabile casa - era stata rinchiusa in mezzo a due grossi condomini di nuova costruzione. Io stessa, che all’epoca non ero in grado di percepire la povertà, mi rendevo conto che M atilde viveva peggio del resto di noi, sempre carica di sporte nonostante le sue gambe gonfie, il grembiule poco pulito, la bocca sdentata, i capelli giallognoli raccolti alla bene e meglio. Come si era ridotta così? Che vita aveva avuto? Come si manteneva? Cosa aveva fatto da giovane? Era mai stata una bella ragazza? Queste sono domande che mi pongo ora, nel ricordarla, ma non allora, quando per me la nozione di passato non esisteva: Matilde era semplicemente Matilde, una vecchia suonata che viveva lì vicino e che aveva un cane - Camuflao - che a un certo punto ho considerato anche un po’ nostro, un bastardino piccolo, con il pelo bianco, macchie nere e una mascherina - motivo del suo nome -. Mia madre mi mandava al mercato e Camuflao mi accompagnava lungo Afán de Ribera, la strada principale del quartiere, che in primavera era rivestita da un tappeto di fiori di jacaranda viola. Pisciava sulle cassette della frutta, sulle cianfrusaglie dei bazar e io facevo finta di niente, perché in fondo quel cane non era mio, mi giustificavo. Ma volevamo molto bene a Camuflao, gli davamo sempre qualche leccornia e carezze. Di notte, quando compravamo pesce fritto alla friggitoria di Manolita - una donna grassottella, simpatica, baffuta - gli portavamo giù le code e le lische delle alici, che lui divorava scodinzolando come un forsennato.

A volte Camuflao spariva inspiegabilmente per giorni o addirittura settimane. Quando chiedevamo notizie a Matilde lei, con gli occhi accesi e decisi, diceva che era in castigo. In castigo? E perché? Cos’aveva fatto? È molto cattivo, ripeteva, è molto cattivo e quindi l’ho chiuso dentro. Non ci permetteva di vederlo e accettava di liberarlo solo quando le passava l’arrabbiatura. In una di queste occasioni gli cambiò il nome, come se Camuflao non fosse mai esistito e lei avesse un nuovo cane che chiamava Guitarra, nome-nuovo-cane-nuovo, sembrò pensare. Guitarra, diceva lei, è così allegro, così allegro, balla persino, vieni qui Guitarra, simpaticone, e socchiudeva gli occhi canticchiando, battendo le mani, sollevandosi il bordo della gonna per battere i tacchi alla flamenca, l’anziana Matilde tramutata in una giovane Matilde ballerina.

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Aveva raccattato Camuflao-Guitarra per strada, proprio come aveva raccattato Diego e Domingo e probabilmente tanti altri uomini che non ho conosciuto. Era nubile, lo ripeteva a ogni occasione, nubile e molto meglio così, senza marito, ma quegli uomini erano mendicanti, non avevano un tetto sopra la testa, quindi come faceva a non aiutarli? Lo diceva come se davvero non ci fosse alternativa, come se lei, per il semplice fatto di possedere una vecchia casetta, avesse l’obbligo di condividerla. Non ho mai conosciuto una donna più generosa - impulsivamente e sinceramente generosa - di Matilde. Aveva a malapena lo spazio per sé, a malapena i soldi per prepararsi un bollito o qualche lenticchia, eppure rispecchiava in pieno quel detto «dove mangia uno, mangiano in due, dove mangiano in due mangiano in tre» e così via. Diego era un gitano malato, molto devoto - portava un’enorme croce di legno appesa al collo che baciava e baciava senza sosta - a cui mancavano diverse dita di una mano a causa di un incidente in fabbrica. Un giorno era comparso nel quartiere chiedendo da mangiare insieme a un’enorme cagna, meticcia, fedele come solo i cani sanno essere. Era analfabeta, non riceveva alcun aiuto dal governo, forse non era nemmeno censito. Matilde gli disse: entra, ti friggo subito due uova. E lui rimase lì per anni, fin quando quella malattia che aveva - e che probabilmente non era stata mai curata - ebbe la meglio su di lui.

Domingo era povero quanto Diego, anche se aveva un che di antico cavaliere, un po’ ridicolo e chisciottesco. Dopo che Matilde lo accolse in casa per pena, ci tornava a periodi perché sua figlia non approvava del tutto quella convivenza. Si metteva sull’uscio a fumare, magro e bello dritto, con la sua collezione di pantaloni a zampa di elefante - all’epoca ormai erano superati - i suoi baffetti bianchi ben tagliati e per salutare piegava la testa con aria molto distinta. Intanto Matilde invecchiava, le gambe ormai sembravano due colonne violacee sul punto di crollare, ma quando le chiedevano come stava rispondeva sempre che si sentiva bene, un po’ meglio…

Il Cerro de Águila era pieno di personaggi come lei – forse non così generosi, ma di sicuro altrettanto poveri e stravaganti – e si creava una solida rete di solidarietà tra vicini. Matilde non si lasciava aiutare tanto facilmente, ma da dove tirava fuori i soldi perché potessero mangiare lei e Camuflao, e Diego e poi Domingo? Mio padre scoprì che riscuoteva un’esigua pensione e anche che aveva diritto a un aumento per via dell’età e degli acciacchi. Dopo un grande sforzo – perché all’inizio lei non si fidava e poi non ricordava più i dati necessari – riuscì a sistemare i documenti e a presentare la domanda necessaria. Un giorno le scrissero: sì, le avrebbero raddoppiato l’importo della pensione, doveva soltanto presentarsi per la firma il martedì successivo in un ufficio del centro. Siccome non usciva mai dal quartiere, mio padre si offrì di accompagnarla. Non si dimentichi, Matilde, le disse. L’aspetto domattina alle otto. Ma alle otto Matilde non aprì la porta, e nemmeno alle nove, e nemmeno alle dieci, e nemmeno per il resto del mattino. Non si fece vedere fino al giorno dopo. Che è successo, Matilde? Chiedeva mio padre cercando di trattenere l’esasperazione, che è successo? Matilde infilò le mani nelle tasche del grembiule, lo guardò lentamente e gli disse che lei non si muoveva da casa sua neanche morta un martedì 13.

Per fortuna mio padre riuscì a concordare un appuntamento per un altro giorno. Matilde andò a firmare e non le restava che aspettare il primo versamento. Ma proprio il giorno prima di quell’avvenimento, quando avrebbe potuto mettere un po’ più di carne nel suo bollito, le venne un infarto e morì. E anche se sappiamo che a volte il destino gioca brutti scherzi, è pur vero che c’è una parte della vita che gli sfugge e scivola via libera. Per cui non ho dubbi che Matilde sia morta felice. Non vide come buttarono giù la sua casetta pochi mesi dopo, non assistette ai cambiamenti del quartiere, non vide la morte di Camuflao – che naturalmente era stato adottato da un’altra vicina – né venne a scoprire di quella di Domingo. Non sa nemmeno che ora è una farfalla nella mia rete di scrittrice. Né che questo è una specie di omaggio alla Siviglia che esiste fuori dalle cartoline e dalle fotografie. E ai suoi straordinari personaggi.

Traduzione di Sara Cavarero
illustrazioni di Enrico D’Elia


Sara Mesa è nata a Madrid, ma vive fin da bambina a Siviglia. È autrice di diversi romanzi e racconti premiati nel suo Paese. Tra i più noti "Cuatro por cuatro", finalista del Premio Herralde. In Italia ha pubblicato con Bompiani il romanzo intitolato "Cicatrice"

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