Una grande temporanea tra Pavia, Napoli e l’Ermitage di San Pietroburgo racconta l’epopea del popolo di origine germanica che invase l’Italia alla fine del VI secolo. E ne mutò i caratteri, da nord a sud

Il 568 è una data emblematica per la nostra storia. Segna infatti l’arrivo dei Longobardi in Italia e, al contempo, l’inizio della frammentazione politica della penisola: l’unità, durata dal tempo di Augusto fino al regno dell’ostrogoto Teodorico, non sarà più raggiunta stabilmente per oltre tredici secoli.

Quando il popolo germanico guidato dal re Alboino, dalla Pannonia (odierna Ungheria) oltrepassò le Alpi orientali entrando nel Friuli e dilagando nel nord, le genti locali, salvo alcune eccezioni, non opposero resistenza. Erano sfinite da una guerra ventennale feroce, nella quale gli eserciti bizantini e goti si erano fronteggiati per la conquista dell’Italia, con conseguenze disastrose: un numero sterminato di perdite umane, saccheggi e pestilenze. La lunga carovana dei “barbari” invasori, che comprendeva anche elementi sassoni, sarmati, gepidi, svevi, si muoveva con uomini armati, animali, e dei grandi carri per le famiglie carichi di vettovaglie, che ricordano le migrazioni dei pionieri americani in marcia verso il “Far West” e quel carroccio dell’età comunale, simbolo di riferimento e comando popolare.
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In pochi anni i Longobardi riuscirono a dominare l’interno dell’Italia settentrionale e l’odierna Toscana, mentre altri gruppi, guidati da compagni di guerra del re, si spingevano verso sud, dove diedero origine ai possedimenti di Spoleto, Benevento, e in seguito di Salerno. E saranno proprio i duchi (“duces”) del meridione a radicarsi maggiormente nel territorio, mantenendo a lungo la loro sovranità dopo la capitolazione dell’ultimo re, Desiderio.
Cos’è rimasto di quel dominio? Quali le occasioni mancate? I Longobardi furono, tra tutte le genti germaniche «i più vicini alla barbarie primitiva», come sosteneva lo storico Giorgio Spini, oppure protagonisti di una trasformazione geopolitica che ha comunque contribuito alla nostra identità?
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Dopo quindici anni di nuove indagini archeologiche, epigrafiche e storiche, una mostra, organizzata da Villaggio Globale, ne propone un’ampia e articolata riflessione: “Longobardi. Un popolo che cambia la storia” (catalogo Skira). Nata dalla collaborazione internazionale di tre istituzioni - Musei Civici di Pavia, Museo Archeologico nazionale di Napoli, Museo Statale Ermitage di San Pietroburgo - e curata da Gian Piero Brogiolo e Federico Marazzi in collaborazione col Mibact, a differenza di precedenti rassegne sull’argomento si presenta come un evento straordinario per le nuove conoscenze e la quantità dei materiali, centinaia dei quali inediti.

A inaugurare l’evento il primo settembre nel Castello Visconteo (dove resterà fino al 3 dicembre) sarà Pavia, che divenne capitale del regno longobardo grazie anche alla sua posizione strategica. Sulla strada che collegava Milano a Genova, si trovava infatti a poca distanza dalla confluenza del fiume Ticino (dal quale aveva preso il nome in età romana) nel Po, ponendosi come snodo importante per i collegamenti fluviali e terrestri. Per l’occasione, è stato fatto il censimento di tutti i dati sparsi in città relativi all’età alto-medievale, collegati da nuovi itinerari, mentre verranno aperte al pubblico per la prima volta tre cripte che facevano parte di edifici di culto.

Nel grande spazio espositivo del Castello, che già ospita collezioni permanenti relative all’epoca longobarda, otto sezioni tematiche faranno conoscere le caratteristiche di questo popolo e gli effetti delle sue conquiste, con installazioni multimediali e un percorso immersivo ideato da Angelo Figus, che sarà scandito da musiche e colori legati alle suggestioni dei reperti.
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Dai ritrovamenti delle necropoli recentemente indagate e presenti nell’esposizione, emerge il carattere guerresco dei Longobardi: divisione in clan, uso di armi come il lungo coltello “scramsax” e la spada a due tagli, scudi rotondi con umbone centrale, staffe (poco diffuse in Italia), sepolture di cavalli, sacrificati per il loro padrone. La stessa organizzazione sociale si basava su istituzioni militari: soltanto gli uomini liberi combattenti (arimanni) partecipavano alle assemblee convocate dal re per prendere le decisioni importanti. Curiosamente, sono sempre rappresentati con le armi i santi che otterranno più devozione da parte dei Longobardi: San Michele e San Giorgio.

Nella sezione dedicata a Pavia, troviamo il re Rotari, che nel 643 promulgò il primo codice di leggi scritte desunte dalla tradizione orale. Le norme da rispettare, in 388 paragrafi, stabilirono multe, confermarono abitudini, mitigarono leggi troppo crudeli, introdussero il carcere fra le pene. Furono redatte in latino, con parole germaniche che servivano da riferimento; ma senza alcun legame con la tradizione giuridica romana.
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Dal punto di vista artistico, i materiali in mostra (corni in vetro, rilievi ornamentali, elementi architettonici, oggetti d’uso quotidiano, gioielli) documentano una trasformazione elaborata nel tempo: dalla raffigurazione di animali astratti e di figure stilizzate, si passa a un linguaggio più formale, derivato dal mondo romano e bizantino. Di grande effetto cromatico sono spille e decorazioni realizzate con la tecnica “cloisonné” (smalti di vari colori incastonati dentro reticoli d’oro), caratteristica della gioielleria tardo-romana e barbarica. Croci d’oro e plutei con simboli cristiani testimoniano invece la conversione ufficiale al cattolicesimo, avviata dalla regina Teodolinda e compiuta intorno al 680.

I Longobardi prima dell’arrivo in Italia si erano convertiti all’arianesimo, la confessione cristiana condivisa con Visigoti e Ostrogoti, pur se molti di loro continuavano a essere pagani. Lo sarebbero rimasti a lungo, indifferenti alle disquisizioni religiose che animavano scuole e concilii nell’impero bizantino d’Oriente, anche dopo l’adesione al cattolicesimo dettata - almeno all’inizio - più da opportunità politica che da fede sincera. Un antico culto professato riguardava la vipera e forse dal loro animale-totem derivò quello rappresentato nello stemma dei Visconti di Milano, futuri signori in una regione che proprio dai conquistatori “dalle lunghe barbe” derivò il nome: Longobardia.

Il passaggio alla nuova fede spinse re e aristocratici a fondare chiese e monasteri come elemento di conservazione della propria memoria. Anche in questo caso, si sono distinti i ducati meridionali. Nel nord, tra gli altri, va ricordato il monastero di Brescia dedicato a San Salvatore - studiato da Gian Piero Brogiolo - che fu voluto dalla regina Ansa, moglie del re Desiderio e madre di Adelchi e della Ermengarda di manzoniana memoria (non sappiamo in realtà come si chiamasse); a sud troviamo Montecassino e San Vincenzo al Volturno. Quest’ultimo, ampliatosi pure in età carolingia, rappresenta un caso unico, nel panorama europeo, come monastero extraurbano esplorato in profondità in ogni sua componente, sacra e profana.

«Qui, oltre le chiese venute alla luce», racconta Federico Marazzi, uno dei curatori della mostra e da venti anni direttore delle ricerche nel sito, «sono emersi refettorio, cucine, sale per ricevere ospiti di riguardo e officine per la produzione metallurgica, laterizia e vetraria. Dalle cucine, in particolare, si sono ricavati interessanti dati sull’alimentazione. A sorprendere di più è stato il consumo prevalente di pesci marini, pescecani compresi: dal momento che siamo in mezzo alle montagne del Molise, questo è un indizio della significativa organizzazione logistica dei monaci». Che, tra l’altro, erano pure colti scrivani. «Nel periodo in cui dal papiro si passò alla pergamena», fa notare Marazzi, «a San Vincenzo c’era una ricca biblioteca citata da Paolo Diacono (autore della “Storia dei Longobardi” alla fine dell’ottavo secolo, ndr). Nei codici ad essi attribuiti e nella copiosa produzione di epigrafi, esposti in rassegna, si nota il raffinato lavoro di amanuensi e lapicidi che contribuirono a formare i canoni della scrittura “beneventana”, tipica dell’Italia meridionale fino al dodicesimo secolo».

A Pavia, e nelle altre due tappe della mostra (a Napoli dal 15 dicembre al 25 marzo 2018; a San Pietroburgo in aprile) diversi ologrammi andranno incontro ai visitatori: monete e gioielli di squisita fattura. Le monete, forse emesse da zecche private, sono una chiave di lettura privilegiata per la rappresentazione del potere sovrano e dei simboli ricorrenti, quali croci, corone, raffigurazioni dell’arcangelo Michele: per mantenere buoni rapporti col papato, i Longobardi ce la misero tutta, anche se gli sforzi, alla fine, risultarono vani. Partì infatti dal pontefice romano – sempre più potente e contrario a subire la dominazione di un sovrano residente in Italia che pretendeva tributi - la richiesta di un intervento armato al cattolico Carlo Magno, re dei Franchi, che nel 774 pose fine al regno con la battaglia alle Chiuse di Susa. La riunificazione dell’Italia, vagheggiata e inseguita da Bizantini e Longobardi (il re Autari piantò una lancia a Reggio Calabria, proclamando: «Arriveremo fino a qui!»), rimase un’utopia.

Coniate in oro, molte monete provengono dal Medagliere del museo archeologico napoletano, ammirato in tutto il mondo per i reperti provenienti da Pompei, Ercolano e dalla Magna Grecia, e che ora, con lo studio di moltissimi materiali dei depositi, ha recuperato anche «un’anima longobarda», come sostiene il direttore Paolo Giulierini. Nel patrimonio partenopeo relativo a tale periodo, il posto d’onore spetta agli “Ori di Senise” (in provincia di Potenza), all’epoca parte del ducato di Benevento: un tesoretto di orecchini, anelli e monili, finora mai presentato al pubblico, che rimanda a maestranze di tradizione bizantina.

Del resto, nella fioritura di produzioni artistiche del sud, dominato negli ultimi secoli da “principi” di veri e propri stati indipendenti (Benevento, Salerno, Capua), sono riconoscibili influenze germaniche, franche, greche, islamiche: incontri culturali in un territorio da sempre proteso sul Mediterraneo, con lo sguardo rivolto all’Europa. Pur tra disaccordi politici interni e scissioni, questo ruolo attivo di cerniera, segnato da fervore urbanistico, ha contribuito alla durata delle presenze longobarde in Italia per quasi mezzo millennio, diventando l’ambiente propizio per la futura “rinascita carolingia”.