Con i due film "Coco" (Disney/Pixar) e "Ferdinand” di Carlos Saldanha il cinema ha deciso di rompere i tabù portando sul grande schermo due pellicole con scheletri e aldilà.  Capaci di colpire al cuore non solo i bambini

Dalla danza degli scheletri animati nella Silly Symphony “Skeleton Dance” (cortometraggio con cui Walt Disney decise di inaugurare nel 1929 la produzione delle cosiddette “Sinfonie allegre”), alla traumatica uccisione “fuori campo” della mamma di Bambi (nel lungometraggio animato del 1942), il cartooning non ha mai avuto paura di affrontare la morte. Mai come quest’anno, però, l’animazione è capace di violare radicalmente quello che finora era considerato un tabù per un prodotto rivolto all’infanzia; dimostrandosi più adulta nelle forme e nei contenuti della maggior parte dei cosiddetti film “d’autore” contemporanei. Questo, curiosamente, è accaduto con due film americani: “Coco” (nelle sale dal 28 dicembre), intriso di cultura messicana e “Ferdinand” (uscito il 21 dicembre in Italia), ambientato nella Spagna delle corride.

La storia di “Coco”, diretto da Lee Unkrich (vincitore del premio Oscar per “Toy Story 3”) e prodotto da Pixar/Disney, si svolge in Messico durante il Dia de los Muertos. Il giorno dei morti, ricorrenza caratteristica della cultura messicana, è una celebrazione festosa dei cari che non ci sono più, con tanto di sfilate, maschere, canzoni, feste e dolci tipici. Il film racconta la storia di Miguel, ragazzino che sogna di diventare musicista in una famiglia di artigiani e fabbricanti di scarpe dove però le canzoni sono bandite per un antico trauma. Miguel non rinuncia ai suoi sogni e, dopo essere finito magicamente nell’aldilà, tra scheletri e bizzarri spiriti guida, scopre i segreti di famiglia in un emozionante viaggio di crescita. Se ambientare un cartoon “natalizio” nell’aldilà sembra un azzardo, Unkrich è andato oltre, con una trovata narrativa che colpisce al cuore gli spettatori di ogni età. Non si fa, infatti, in tempo ad abituarsi a un mondo dove si aggirano scheletri di ogni ceto ed estrazione sociale, che si scoprono le regole della loro esistenza post-mortem.

Tutti i defunti possono, nel Dia de los Muertos, attraversare il ponte di fiori che congiunge la terra dei morti con quella dei vivi, ma solo a patto che i loro eredi li stiano celebrando nel santuario di famiglia, esponendone le fotografie. In assenza della foto lo scheletro non ottiene il “visto” per la visita: è emarginato dalla festa e resta confinato nell’aldilà. La regola è inflessibile e c’è una sorpresa ancor più dolorosa: la vita nella terra dei morti non è eterna. I simpatici scheletri che un tempo erano i nostri cari, infatti, possono continuare ad abitare la terra dei morti solo fino a quando esista un vivente che li ricordi: se nessun essere umano ne conserva memoria, sono destinati tristemente a dissolversi. In Messico, dove il film è stato presentato in anteprima mondiale, in sette settimane ha battuto ogni precedente record d’incasso, sfiorando i 57 milioni di dollari al botteghino. In America, dove il film è uscito col visto PG (cioè “parental guidance”: la visione per i bambini è consigliata con la presenza di un adulto), ha già superato i 150 milioni. Resta da scoprire la reazione del pubblico italiano al cartoon.

Bimbi e genitori possono prepararsi a riflessioni adulte con “Ferdinand” di Carlos Saldanha (regista dei primi tre capitoli dell’“Era Glaciale”, di “Robots” e dei due “Rio”), prodotto dalla Blue Sky/Fox. Il film è basato sul libro “La storia del toro Ferdinando” (Excelsior 1881), pubblicato nel 1936 su testo di Munro Leaf e disegni di Robert Lawson. Quelle cinquanta pagine avevano già ispirato il cortometraggio animato Disney “Ferdinand the Bull”, diretto da Dick Rickard nel 1938 e vincitore dell’Oscar. Saldanha ha affrontato con lo sceneggiatore Jordan Robert (“Big Hero 6”), la sfida di trasformare il racconto in un film di un’ora e tre quarti, narrando la storia di un toro diverso dagli altri: il sensibile e gentile Ferdinand che rifiuta di combattere nell’arena, preferendo annusare i fiori. Un messaggio pacifista talmente inequivocabile che il libro fu bandito in Italia, Spagna e Germania all’epoca del nazi-fascismo.
Il toro Ferdinand

Il lungometraggio di Saldanha espande il tema del film e, inevitabilmente, porta alla luce le reali prospettive esistenziali degli altri tori, che si allenano coltivando ingenuamente il sogno di diventare famosi nella corrida. La sequenza in cui Ferdinand contempla la parete con esposte le corna di quelli che, prima di lui, sono passati per l’arena è emotivamente devastante. Un trauma secondo solo a quello provato scoprendo il destino dei tori che non mostrano talento negli allenamenti: sono caricati su un camioncino che li porta direttamente al macello, un edificio che, in lontananza, ha terrificanti analogie con il campo di concentramento di Auschwitz.

«La morte fa parte della vita e anche del mio film – ci ha detto a proposito Carlos Saldanha - nel caso di “Coco” c’è la tradizione messicana sul tema, mentre in “Ferdinand” si mostra quanto sia sbagliata una morte non “naturale”. Quello ad Auschwitz non è un riferimento intenzionale, però se si pensa che lì gli esseri umani erano trattati come bestie mandate al macello, le similitudini sono lampanti».