Uno studio recente ha individuato tre geni che possono predire la malattia, perché appartengono al patrimonio genetico di quel soggetto. Una predisposizione che si incrocia con esperienze in giovane età, fino a tutta l’adolescenza, di eventi particolarmente stressanti: incidenti, perdite, abusi
Essere sempre tristi, chiudersi in sé stessi, cambiare i ritmi sonno-veglia e vedere mutati gli stimoli alimentari. E poi non riuscire a concentrarsi, non essere soddisfatti dalla quotidianità e dalla vita in generale, fino ad avere pensieri di morte. Sono alcuni sintomi della depressione, che solo in Italia vede 3 milioni di casi diagnosticati: Indro Montanelli la definiva una malattia democratica, perché può colpire tutti, senza distinzione di ceto sociale, ricchezza e notorietà. Tuttavia le basi biologiche non sono ancora del tutto chiare.
Uno studio recente pubblicato sulla rivista scientifica Molecular Psychiatry ha individuato tre geni (FoxO1, A2M e TGF- ?1) che possono predirla, perché appartengono al patrimonio genetico di quel soggetto. E ha sottolineato che questa predisposizione si incrocia con esperienze in giovane età, fino a tutta l’adolescenza, di eventi particolarmente stressanti. Può essere la separazione o la morte di uno dei genitori e di una persona cara in generale. Oppure un abuso, una violenza, la partecipazione a un evento sociale destabilizzante come la guerra o un attentato. Come a dire che la depressione può venire dal passato, anzi addirittura dalla nostra nascita.
Ora il passo successivo è cercare di capire in che modo questi geni determinino la vulnerabilità e interagiscano negativamente con l’ambiente esterno, con gli eventi familiari e la vita di tutti i giorni, così da aprire la strada a nuove molecole, nuovi farmaci, nuovi approcci psicoterapeutici più mirati per combattere la depressione e prevenirne l’evoluzione. E se anche la prosecuzione di questo studio avrà gli effetti sperati, in futuro uno specialista potrebbe prescrivere al paziente con una certa storia clinica e personale delle analisi specifiche, capaci di individuare la presenza di quei geni, quindi avere una terapia ancora più adatta.
Il percorso è nato in Italia con Annamaria Cattaneo, responsabile del laboratorio di psichiatria biologica dell’Irccs Fatebenefratelli di Brescia, ma ha coinvolto diversi ricercatori e altrettante strutture: il King’s College di Londra, il Max-Planck di Monaco, l’Università di Helsinki, quella di Milano e l’Emory University School of Medicine di Atlanta.
“Non è detto che ci sia per forza una coincidenza tra la presenza di quei geni e lo sviluppo della depressione”, dice Cattaneo. “Per questo usiamo la parola “vulnerabilità”, perché gli eventi che ci capitano nella vita hanno ugualmente un peso determinante, ma un’eventuale predisposizione va guardata con attenzione. Molto spesso sentiamo dire che in età adulta c’è stato un evento nuovo, in qualche modo scatenante, come una goccia. Che i soggetti sono riusciti a tollerare quella situazione fino a un certo punto e poi qualcosa ha destabilizzato un equilibrio costruito su basi molto fragili. Può essere un divorzio o una delusione amorosa molto profonda, la perdita di un familiare o del lavoro, un incidente, in generale un distacco o una perdita”.
Si tratta di una malattia complessa e multifattoriale, tant’è che un altro studio altrettanto recente condotto dall’Università di Binghamton – Università Statale di New York ha indicato che dormire poco di notte aumenta il rischio di ansia e depressione, perché i soggetti analizzati si concentravano su pensieri negativi e si chiudevano maggiormente in loro stessi.
“Dopo aver individuato quei geni – continua Cattaneo - li abbiamo testati grazie alla collaborazione del Max-Planck e di Helsinki, dove abbiamo lavorato su campioni di 4971 individui esposti a esperienze traumatiche in adolescenza e 384 soggetti esposti da piccoli alla separazione dai genitori a causa della Seconda Guerra Mondiale. Inoltre, non possiamo dimenticare che la depressione non riguarda solo il cervello, ma ha una ricaduta negativa anche sul resto dell’organismo: lo indebolisce e lo rende, a sua volta, vulnerabile a malattie, se non potenzialmente evitabili, che avrebbero probabilmente conseguenze minori. Ecco perché vogliamo capire come cambia la risposta allo stress in base all’interazione tra geni e ambiente esterno, per andare alla base e permettere di agire sui meccanismi primari”.