E' vero che ha distrutto la vecchia politica, senza inaugurarne una nuova. Ma ha avuto un impatto fortissimo sulle nostre forme di vita. Piuttosto che nel politico, il Sessantotto è confluito nel privato. Replica a Giovanni Orsina
Sì, è vero che a cinquant’anni dal Sessantotto sono arrivati il populismo e l’antipolitica, come
Giovanni Orsina sostiene non senza ragione. È vero che è addirittura possibile titolare un libro “Berlusconi o il ’68 realizzato”, come ha fatto il compianto Mario Perniola. Ma è una formula che non tiene dentro tutto ciò che il Sessantotto è stato. E rende troppo lineare un percorso assai più accidentato, contraddittorio, ineguale. I passaggi storici non sono mai determinati da un’unica causa o riconducibili a una stessa origine. E quell’origine contiene in serbo elementi contrastanti, segmenti divergenti, potenzialità irrealizzate. Ciò accade sempre, ma in quella data fatidica, che sembra spezzare in due la seconda metà del Novecento, ancora di più. Intanto perché il Sessantotto non è stato uno solo. Sia nel senso che lo si può guardare in maniere diverse e opposte. Sia nel senso che in quella scatola ci sono pezzi di differente forma e dimensione. Perché il Sessantotto di Berkeley non è quello di Parigi e questo non è quello di Praga o di Roma. Solo lo sguardo dello storico, o del narratore, riconduce a un medesimo nome fenomenologie irriducibili a un unico senso.
Del resto la stessa cronologia è incerta. O meglio dipende dal luogo e dal punto di vista. Per esempio in Italia si può dire che il Sessantotto arriva alla fine degli anni Settanta, caricandolo di responsabilità troppo pesanti da sopportare. Oppure che è durato pochi mesi, dall’occupazione di Palazzo Campana di Torino nel novembre del ’67 all’estate dell’anno successivo. Poi, tutto quello che è accaduto dopo è un’altra storia. Che il movimento non ha saputo prevedere né arrestare, ma che certo non discende direttamente da quel grido di libertà che ha scosso il mondo. Di esso oggi resta assai poco. O, peggio, è confluito in un neoliberalismo opaco e oppressivo. Ma non perché quella fosse l’unica direzione che la protesta studentesca poteva prendere. Semmai perché non ha saputo imboccarne un’altra. Almeno nessuna direzione politicamente effettuale. Come dice Mario Tronti, il Sessantotto non ha avuto una potenza costituente, ma solo destituente. Ha disattivato una serie di dispositivi autoritari, senza attivare progetti politici credibili. Ha fallito l’incontro, solo per un attimo intravisto, con il movimento operaio. Ha lavorato contro l’autorità, non contro il potere. Senza pensare che l’autorità è un ingrediente indispensabile alla legittimazione di ogni politica come, dopo Hannah Arendt, hanno compreso le femministe italiane. Ma che anche il potere è ineliminabile, non sopporta il vuoto. Può variare il modo di esercitarlo, ma non essere abolito per decreto.
Questo è stato il vero punto di caduta - di ripiegamento su se stesso - del Sessantotto. L’incapacità di misurarsi col politico - vale a dire con l’identificazione chiara dell’avversario e con una scelta, altrettanto chiara, delle alleanze. Piuttosto che nel politico, il Sessantotto è confluito nel sociale e nel privato. Con risultati, certo, largamente positivi, che hanno cambiato per sempre la mentalità, le idee, i gusti di milioni di donne e di uomini. Senza però modificare la struttura di fondo, lo scheletro delle società occidentali. Anzi i fallimenti, le forzature ideologiche, le involuzioni del movimento hanno prodotto la svolta restauratrice degli anni Ottanta, a partire dalla Thatcher e Reagan. Avvenuta appunto in nome della cancellazione del Sessantotto.
In Italia, negli anni Settanta, le cose sono andate addirittura peggio, quando schegge impazzite di movimento hanno scelto la lotta armata. È stata l’altra conseguenza suicida del mancato aggancio alla politica: da un lato la spoliticizzazione nel privato, dall’altro l’iperpoliticismo leninista, fuori tempo e fuori luogo, di una rivoluzione impossibile.
Dunque un Sessantotto doppio, o sdoppiato in due vettori che stentiamo a ricomporre in un giudizio unitario. Da una parte il primo movimento globale della storia contemporanea – forse della storia. La protesta che reclamava la fine del colonialismo, della segregazione razziale, dell’ineguaglianza a ovest e dell’oppressione a est. La spallata decisiva a un vecchio modo di pensare ed agire. È difficile sottovalutare l’impatto del Sessantotto sulle nostre forme di vita. Sul modo di intendere il rapporto con gli altri e con noi stessi - quelli che oggi si chiamano “processi di soggettivazione”. Come dimenticare che quando è esplosa la rivolta studentesca, in Alabama c’era ancora il Ku-Klux-Klan. Che in Italia non era possibile divorziare. Che l’Università in tutta Europa era ancora privilegio delle classi dirigenti. Che tra politica e vita non c’erano reali canali di transito. Ma la fine del vecchio mondo, in tutto l’Occidente, non ne inaugurava uno nuovo. In questo senso ha ragione chi vede nel Sessantotto più l’esaurimento di qualcosa che la nascita di un’altra.
Per esempio,
sul piano delle idee, nonostante Marx, Lenin e Mao dipinti su tutte le bandiere, esso certificava la fine del marxismo. Come anche della classe operaia, almeno nel senso che siamo abituati ad attribuire a questo termine. La proletarizzazione generale prevista da Marx appariva chiaramente contraddetta dall’imborghesimento di operai pronti all’integrazione.
Sul piano della filosofia questa crisi della politica - ridotta da un lato a sociologia e dall’altro a etica - è evidente. Se a Francoforte Adorno, attaccato dal movimento studentesco, era superato da Marcuse, in Francia la scuola politica di Althusser cedeva il passo alla decostruzione impolitica di Derrida. Quanto all’Italia, il ripiegamento impolitico era certificato dal successo del pensiero debole. Del resto basta leggere in forma incrociata i due ultimi libri, entrambi autobiografici, di Toni Negri, “Galera ed esilio. Storia di un comunista” (Ponte alle Grazie) e di Mario Tronti, “Il demone della politica. Antologia di scritti (1958-2015)” (il Mulino), per registrare la sconfitta storica di tutti e due i fronti di quel pensiero forte che è stato l’operaismo italiano. Ciò che, più in generale, ha segnato la cultura nata dal Sessantotto è stato il rapido slittamento dalla negazione di ogni cosa - dell’autorità, delle istituzioni, della famiglia - a un’affermazione altrettanto indeterminata. Dalla critica di tutto al “vogliamo tutto”, senza passaggi intermedi. Non si è saputo aprire un confronto articolato con il “negativo”, con le sue diverse grammatiche.
Così le “macchine desideranti” di Deleuze sono slittate nell’imperativo al godimento a ogni costo del narcisismo imperante. Nato contraddittoriamente da un movimento di massa, l’individualismo si è a sua volta massificato, diventando nuovo conformismo, come ha precocemente visto Pasolini. In questo modo, a cinquant’anni dalla stagione che intendeva realizzare finalmente la democrazia, si è generato l’attuale rifiuto della politica. Come a volte accade nella storia, si è ottenuto il contrario di quel che si voleva - anziché politicizzare il privato si è privatizzata la politica.