La lezione arriva dall'italiano “La strada dei Samouni” di Stefano Savona e “Still recording”, il documentario di Said Al Batal e Ghiath Ayoub, sui quattro anni di assedio mortale nella periferia di Damasco

Ci sono dei nuovi attori sulla scena affollata e confusa delle guerre nostre contemporanee, o meglio del racconto che ne fanno i media, spesso sensazionalista e sommario. Sono i documentaristi indipendenti, registi quasi sempre giovani o giovanissimi che non ne possono più delle retoriche imperanti, e che decidono di andare a vedere di persona. Per tornare a casa, magari anni dopo, con film che cambiano per sempre non solo l’immagine di quel conflitto ma le regole del gioco: il modo di raccontare la guerra, i rapporti con chi la fa o la subisce, l’approccio con un mondo in cui eventi, sentimenti, schieramenti, sono sempre più complessi di come vengono dipinti.

Tra i massimi esponenti di questa nuova tendenza c’è Stefano Savona, regista del bellissimo “La strada dei Samouni” (premiato a Cannes e in tanti altri festival tra cui quello di Salina, ora in tour per l’Italia grazie alla Cineteca di Bologna), anche perché la pratica fin dal suo primo film, “Primavera in Kurdistan”, e ha continuato a perfezionarla in lavori come “Piombo fuso” e “Tahrir Liberation Square”.

Savona sa da sempre che non basta guardare per raccontare, come fanno le troupe dei tg. Tantomeno postare video raccapriccianti che diventano più o meno consapevolmente armi in mano alle varie fazioni. Né incrociare statistiche o discutere sulle immagini da pubblicare, come accade nelle redazioni.
Intervista
Simone Massi: "Animazione e documentario sono due facce della stessa medaglia"
13/11/2018

No, per capire cosa succede davvero bisogna vivere a lungo con le persone che si vogliono rappresentare, condividere paure, speranze, pericoli, costruire un’intimità che è la condizione di ogni possibile scoperta. Non per fare banale “controinformazione” come si diceva una volta, ma per esplorare dimensioni invisibili se ci si ferma alla cronaca. Il colpo d’ala de “La strada dei Samouni” è lo sguardo sul passato di questa famiglia di contadini palestinesi che nella striscia di Gaza vivono da sempre e vengono decimati da un bombardamento durante l’operazione “Piombo fuso”. Un passato inconoscibile e insieme incancellabile che il film resuscita con rigore e forza poetica grazie alle immagini di un grande animatore come Simone Massi, che conferiscono un’aura mitica al rapporto con la terra e a ogni sfumatura del quotidiano.
[[ge:rep-locali:espresso:285324987]]
Ma non è detto che per raccontare a fondo la guerra si debba compiere un percorso tanto complicato. A volte per cogliere dimensioni nascoste basta mettersi a disposizione per il tempo necessario, un tempo insopportabilmente lungo per i media o per le produzioni commerciali. E ancor prima porre, e porsi, le domande giuste. Come hanno fatto i siriani Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub, 30 e 29 anni oggi, autori di un altro film avventurosamente distribuito in Italia grazie agli sforzi congiunti di piccole società indipendenti come Reading Bloom, Kama Productions e Isola Edipo: “Still Recording”. Forse il titolo più premiato di tutta l’ultima Mostra di Venezia, dov’era alla Settimana della Critica.

Per quasi cinque anni dunque i due giovani siriani hanno «vissuto, mangiato e dormito», parole loro, con i combattenti ribelli al regime di Assad, a Douma, Ghouta orientale, alle porte di Damasco. Altri due li hanno passati in moviola per estrarre un film da 450 ore di girato. Durante le riprese hanno visto morire ben 14 dei loro compagni di lavoro (alcune di queste morti sono visibili, con molto pudore e lodevole accortezza, anche nel film). Mentre Ghouta ha subito un attacco chimico che ha fatto 1500 vittime. Ma il cuore del film non è in queste macabre statistiche. È nella capacità di mettere continuamente a fuoco lati inediti e rivelatori della vita sotto assedio, senza smettere un momento di interrogarsi sul lavoro che stanno facendo.

Dopo l’attacco chimico, ad esempio, non escono nemmeno a girare: «Ci sono già troppe telecamere accese in giro». Basta riprendere i resti del missile, prova del misfatto. O un’amica che trema e piange davanti alla tv.
«L’immagine è l’ultima linea di difesa contro il tempo», dice Al Batal. «È la mia linea di difesa contro la realtà; il mio strumento per preservare l’equilibrio e un modo per eludere la domanda: cosa sto facendo ora?». Lo dice anche ai suoi allievi in una delle prime scene del film, una lezione di cinema guardacaso, in cui etica e estetica sono subito strettamente intrecciate. «Per fare un film devi avere in mente un pubblico ideale», prosegue Al Batal.

«Noi ci rivolgiamo ai bambini di domani. Ho impugnato la telecamera per permettere loro di farsi un’idea più chiara della storia e di quello che stiamo vivendo in questi anni».

Non sappiamo se il riferimento ai bambini alluda anche a “Germania anno zero”, ma il capolavoro di Rossellini torna in mente con forza davanti alle strazianti distese di macerie di “Still Recording” e allo sguardo carico di pietas (mai di commiserazione) posato sugli abitanti di Douma. La differenza sta tutta nella posizione del regista, nel senso anche fisico del termine.
[[ge:rep-locali:espresso:285324988]]
Reduce da “Roma città aperta” e “Paisà”, Rossellini rappresentava un cinema ancora saldamente egemone che per quanto neorealista inquadrava e riordinava il mondo sempre un po’ dall’alto. Saeed Al Batal e Ghiath Ayoub non sono nessuno, vivono nell’era del Web, degli smartphone e della disintermediazione, dunque si calano personalmente, fisicamente dentro ciò che raccontano. Non a caso uno dei grandi protagonisti del loro film è proprio il corpo, il nostro corpo, grande rimosso da una scena mediatica che lo concepisce solo come ricettacolo di dolore, mutilazione, morte, o viceversa come numero, dato statistico. Mentre in “Still Recording” torna a vivere in tutti i suoi stati.

È il corpo che quel signore in tuta degno di un film di Ciprì e Maresco vuole testardamente tenere in forma, ostinandosi a fare ginnastica tra le macerie per non arrendersi alla guerra. È il corpo della ragazza tatuata da Milad, lo scultore che entra in crisi e abbandona i suoi privilegi di figlio della classe agiata per combattere. È, ancora, il corpo atletico e snodato di quel giovane cecchino ilare, astigmatico, assurdamente simpatico, che prova pietà per ogni persona che abbatte («Non è vero che è come un videogame, ogni volta che sparo il cuore mi sanguina, tutti hanno un’anima... non per questo non sparo»), ma la sera ascolta musica e si concede una sfrenata danza hip hop. Ma è anche, naturalmente, quel tronco umano non meglio identificato che un bambino, senza batter ciglio, dice di aver visto in un cassonetto dopo un bombardamento. E che noi non vedremo mai perché Al Batal e Ayoub, malgrado la crudezza di molti momenti, evitano rigorosamente il ricatto dell’orrore («Questione di rispetto: dopo l’11 settembre non circolavano immagini delle vittime, i siriani non sono diversi dagli americani»). Anche se non perdono occasione di interrogare il potere delle immagini. E quello della regia: quando iniziare a girare, e quando smettere? Non quando vorrebbero i capi militari, come si vede più d’una volta. E poi: cosa inquadrare, cosa lasciare fuori campo?

La risposta più eloquente arriva dalla scena quasi incredibile che dà il titolo al film. Un piano sequenza “casuale” che cattura un momento terribile. È una bella giornata, l’inverno è finito, due reclute sorridenti passeggiano. Milad lo scultore non fa in tempo a metterli in guardia da un cecchino che i due sono a terra, e così la telecamera che però, appunto, continua a girare - still recording - registrando oltre ai movimenti e i lamenti di uno dei due feriti, visibile solo dalla vita in giù, l’arrivo dei soccorsi che tenendosi al riparo, anche loro visibili solo in parte, commentano l’accaduto come un coro greco, cercano un bastone, cautamente precauzioni recuperano prima la pistola caduta poi la telecamera rimasta accesa... «In momenti simili capisci davvero cosa stai facendo e qual è il tuo mandato», conclude Al Batal. «Normalmente nessuno rischierebbe la sua vita per un’immagine. Ma se stai filmando una rivoluzione succede anche questo».