Opinioni
15 dicembre, 2025La governabilità viene garantita non dalla persuasione, ma dall’ingegneria delle regole
C'è sempre un momento, nella parabola del potere, in cui il governo smette di misurarsi con il Paese e prova invece a misurare il Paese. La riforma della legge elettorale che Giorgia Meloni ha in mente — ritorno al proporzionale, liste con preferenze, listino bloccato di nominati e premio di maggioranza alla coalizione che supera il 40 per cento — appartiene esattamente a questa stagione: non quella della stabilità invocata, ma quella del controllo cercato.
Il lessico è rassicurante. Si parla di rappresentanza, di restituzione della scelta agli elettori, di fine delle distorsioni. Ma sotto la superficie tecnica affiora una logica squisitamente politica: mettere in sicurezza il potere conquistato, neutralizzando l’imprevedibilità del consenso in una fase in cui il vento non soffia più con la forza dell’inizio. Il proporzionale, nella tradizione italiana, non è mai stato un gesto neutro: è lo strumento con cui il sistema si difende quando teme di non reggere l’urto del cambiamento.
Il premio di maggioranza al 40 per cento è il punto più delicato — e più rivelatore. È una soglia studiata, non casuale: sufficientemente alta da apparire “responsabile”, sufficientemente bassa da rendere plausibile una maggioranza senza un vero plebiscito. In questo modo la governabilità viene garantita non dalla persuasione, ma da una clausola; non dalla forza di un progetto condiviso, ma dall’ingegneria delle regole. La democrazia, così, non decide: ratifica.
Il ritorno alle preferenze, poi, viene presentato come la fine delle oligarchie di partito. Ma è un’illusione ottica. In un contesto politico impoverito, mediatico e personalizzato, le preferenze non liberano l’elettore: lo incasellano. Premiano chi ha più risorse, più visibilità, più reti di potere locale. Trasformano il consenso in competizione individuale permanente e spostano il baricentro della politica lontano dai programmi, verso l’organizzazione del voto. La scelta torna all’elettore solo in apparenza: in realtà torna al notabilato e alle clientele.
Il rischio più grande, però, è sistemico. Una legge elettorale disegnata per una maggioranza — non per il Paese — finisce per consumare rapidamente la sua stessa legittimità. Se il premio diventa il vero obiettivo, la soglia il feticcio, la coalizione una somma aritmetica tenuta insieme dalla prospettiva del potere, allora il pluralismo si contrae invece di espandersi. Il Parlamento si riempie di frammenti, ma la decisione si concentra. È il paradosso di un proporzionale che produce verticalizzazione.
C’è infine una questione più profonda, che riguarda il tempo politico. Le democrazie mature cambiano le regole per includere, non per proteggersi. Quando invece il potere riscrive il campo di gioco mentre si gioca la partita, manda un messaggio preciso: teme il giudizio, anticipa la difesa, rinvia il confronto. È qui che la riforma diventa un segnale di debolezza più che di forza.
La legge elettorale non è mai solo un dispositivo tecnico. È la costituzione pratica della politica. Toccarla con l’idea di blindare una maggioranza significa accettare che il consenso non sia più qualcosa da costruire, ma un rischio da amministrare. E quando la democrazia viene trattata come un problema di sicurezza, prima o poi si presenta il conto. Non sempre al governo che ha scritto le regole, ma quasi sempre al Paese che le deve vivere.
LEGGI ANCHE
L'E COMMUNITY
Entra nella nostra community Whatsapp
L'edicola
Pedro Sánchez Persona dell'Anno - Cosa c'è nel nuovo numero de L'Espresso
Il settimanale, da venerdì 12 dicembre, è disponibile in edicola e in app



