Una ricognizione tra le crisi del presente per uscirne. Con un “pessimismo creativo"

Arriva in libreria il 31 ottobre “Epocalisse. Appunti di un cronista pessimista” (Mimesis) di Marco Pacini. Di seguito un ampio stralcio del primo capitolo.


Una domenica qualsiasi. Mi affaccio: il cielo di Roma smentisce le previsioni meteo. Nessuna minaccia di pioggia. Non ancora. E il sole sorto da poco, che si fa largo tra poche nuvole innocue, sembra rimproverarmi mentre faccio il caffè (“Hai visto?!”), con lo stesso piglio dei “dati di fatto”, le statistiche, che provano a rinchiudere il mio pessimismo epocale nel più angusto spazio di un malessere personale.

Sono un vecchio giornalista di carta che vede cadere il suo mondo a pezzi, giorno dopo giorno, calcinaccio dopo calcinaccio. Tutto qui. E dunque un residuo analogico che dovrebbe smetterla di confondere la parte con il tutto, la sua piccola miseria con un pensiero della Fine. Di contrabbandare il suo pessimismo per un nientedimeno che Kulturpessimismus aggiornato. E che dovrebbe recitare ogni mattina, come un rosario, due mantra della filosofia occidentale:
Il migliore dei mondi possibili
Tutto ciò che è reale è razionale
La Fine di che cosa poi? Della politica, potrei azzardare. Di uno spazio pubblico reale. Dell’informazione. Del pensiero critico. Del mondo... Del mondo? Non esagerare , mi dico. Anche se la catastrofe ambientale ormai in corso dovrebbe suggerire di coltivare con metodo un pensiero della Fine, per evitarla. Mi riaffaccio: non piove. Dev’essere un segno. Non mi resta che mettermi a caccia di ottimismo. Non è facile, anche perché in un importante paese occidentale, il mio, si è votato da poco dopo una campagna elettorale desolante, del tutto priva di una seppur vaga idea di futuro, e seguita da un dibattito post-elettorale che sembrava suggellare il trionfo della mediocrazia, per dirla con Alain Denault, e dalla formazione di un governo egemonizzato da un ministro delle interiora. Cerco allora ottimismo tra le cronache, gli inserti di “buone notizie” e la saggistica del “pensa positivo” che sembra aver ripreso vigore anche fuori dal perimetro della psico-manualistica da bere .

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Sul tavolo, tra appunti sparsi, posacenere e ritagli di giornale, occhieggiano due titoli recenti che fanno al caso mio, alla mia ricerca: Ottimismo (malgrado tutto) e Nuova età dell’oro. Guida a un secondo Rinascimento economico e culturale . Il primo, un libro-intervista a Noam Chomsky, è un “fortissimo monito a lottare ancora”, come strilla la quarta di copertina. Ma le analisi del grande linguista e intellettuale engagé novantenne sono più vicine al pessimismo della ragione che all’ottimismo della volontà. Il secondo [...] risulta mal tarato fin dal parallelismo storico contenuto nel titolo, come dovrebbe suggerire la demografia. Vediamo. Popolazione mondiale nel Rinascimento: meno di cinquecento milioni; popolazione attuale: sette miliardi e mezzo. La demografia, come avverte Michel Onfray, “rende conto del movimento delle cose, ma è una disciplina di cui i negatori del reale non vogliono nemmeno sentir parlare”.

Per nulla convinto dell’ipotesi neo-rinascimentale, cerco di meglio. E spunta l’Illuminismo. Quello dello scienziato cognitivo di Harvard Steven Pinker, che all’inizio del 2018 ha fatto discutere l’intellighenzia americana, ancora stordita da Trump, con il suo Enlightenment Now . Sommergendoci di macro-dati, Pinker ci spiega che il progresso è certo e indubitabile. Bene, professore! E che non ci sono ragioni plausibili per sospettare che siamo nei pressi di incroci pericolosi... a meno che non li abbiamo già superati imboccando la strada sbagliata, contromano. Meno bene. […]. L’“esame” all’ottimismo di Pinker potremo farlo tra qualche anno. Nel frattempo, per semplice curiosità, vado a cercare tra quelle che erano le “153 ragioni per essere ottimisti” nel 2007.
Dal 1998 la Edge Foundation, una comunità di filosofi e scienziati per lo più statunitensi, chiude ogni anno ponendo un quesito. [...]. Nel 2007 il quesito era: “Cosa vi rende ottimisti e perché?”. Rilette a distanza di oltre un decennio, molte di quelle risposte lasciano di stucco. Jared Diamond rispondeva in due punti secchi. Primo: i grossi gruppi industriali a volte concludono che ciò che è buono per il futuro a lungo termine dell’umanità lo è anche per i loro utili – vedi la decisione di Walmart di trasferire interamente gli acquisti di pesce nel giro di tre, cinque anni al massimo, ad attività ittiche dalla sostenibilità certificata. Fantastico! Il colosso dei supermercati, campione dello sfruttamento dei lavoratori e del lavoro fondato sul ricatto, fa mangiare agli americani pesce “sostenibile”. Secondo: chi vota in un regime democratico a volte fa delle buone scelte ed evita le cattive. A volte... Poi è arrivato Trump.

Lo scienziato hi-tech Chris DiBona sosteneva le buone ragioni dell’ottimismo motivandole con l’idea che saranno i comuni cittadini a proteggere la terra dallo sfruttamento, grazie ai progressi della scienza. Le immagini ad alta definizione che possiamo vedere sui nostri computer – sosteneva – renderanno la vita difficile ai “pirati” dell’ambiente: come potranno abbattere foreste o inquinare fiumi senza che tutti possano scoprirlo e denunciarlo? Nel 2018 le immagini ad alta definizione ci fanno vedere come procede la deforestazione in Indonesia (alcuni milioni di ettari di foresta sono andati persi in dieci anni), i fiumi mortali in India, i cadaveri degli ambientalisti morti ammazzati in Amazzonia. Un po’ sfuocate, se non del tutto assenti, le masse dei “denuncianti”. Che tenerezza i devoti dell’hi-tech!

Un’altra autorevole scienziata della Edge Foundation, la fisica Lisa Randall, si diceva ottimista senza esitazioni perché vedeva crescere nelle persone un desiderio di verità, perché le persone vogliono accedere alle informazioni senza doversi fidare di autorità discutibili. E qui forse ogni commento sarebbe superfluo, dopo l’ingresso nell’ era fake , in cui abbiamo mosso solo i primi passi. Sembra piuttosto – come ha messo in guardia sul “Washington Post” del 22 febbraio 2018 lo studioso di ecosistemi mediatici, Aviv Ovadya – che siamo prossimi a un’i nfoapocalisse . No, non è un problema di Facebook e di quanto seriamente il colosso social stia provando ad arginare la disinformazione che veicola. Il problema è che la tecnologia delle comunicazioni e l’intelligenza artificiale (soprattutto grazie ai “progressi” in campo audio e video) stanno distruggendo la realtà stessa, altro che le “autorità discutibili”.

Sempre nel 2007 l’élite filosofica e scientifica made in Usa sfoggiava previsioni ottimistiche come quella del filosofo e neuroscienziato Sam Harris. Empatia, comprensione, erano le parole chiave del futuro dell’umanità. Le vedeva crescere, Harris, insieme con la capacità di immedesimarsi nei propri simili e comprenderli meglio. Ma forse parlava dei vicini di casa wasp , visto che nel frattempo nel suo paese è nato un movimento chiamato Black Lives Matter e che nella quasi totalità di questa parte di mondo, neo-rinascimentale e neo-illuminista , il razzismo cresce, deborda, si fa politico, violento. [...]. La caccia all’ottimismo si interrompe. Si infrange sul sospetto che in ogni sua forma l’ottimismo sia oggi negazionista e complice, spesso ottuso. [...]. Osservare ciò che succede, ciò che è e ciò che sta per succedere sembra una buona ginnastica per sfuggire ai diktat del tecno-ottimismo, che si presenta come una delle ideologie più pervasive della storia. Fuori da questa ideologia non c’è un mondo di Walden, un neo-luddismo, uno stato depressivo, una tecnofobia incurabile. E il pessimismo è reazionario solo nel senso che prova a reagire alla progressiva scomparsa del pensiero critico, a vigilare, a pretendere dall’autista che dica dove siamo diretti, oltre a regalare il brivido della velocità.