Dà voce ai migranti. Denuncia il razzismo. Propone uno sguardo diverso sull’Altro. La comunità più combattiva si dà appuntamento sui palcoscenici d'Italia (Illustrazione di Ivan Canu)

Forse non è un caso che l’avventura di Mediterranea-Saving Humans e della nave Mar Ionio, sia stata presentata anche in uno dei teatri di ERT-Emilia Romagna Teatro, l’Arena del Sole di Bologna, con oltre cento artisti e tanto pubblico. Perché nell’Italia di questi tempi cupi, i teatri storici sono tra i più attivi spazi di difesa della civiltà.

In controtendenza rispetto alla narrazione governativa, la comunità teatrale si apre all’incontro e al confronto con chi arriva dal mare. Molti spettacoli sono così azione e opposizione, sono luogo per dire e ascoltare. Sono il tempo per inventare nuove parole in fatto di migrazioni. Come accade per “L’abisso” di Davide Enia. A teatro si parla di razzismo, senza fare sconti.

In passato – ma l’Antica Grecia è ormai una leggenda – tra xenofilia e xenofobia non c’erano dubbi: l’ospite era sacro e la grande Tragedia stava lì a raccontarlo. Oggi, invece, sulla pelle dello straniero si giocano partite aspre: per avere consenso si inneggia al nemico da arrestare e espellere. Il nemico, ovviamente, è l’Altro, quello che viene da fuori, che fa paura. Spesso tale alterità ha le eterne caratteristiche dell’Uomo Nero.

E invece c’è chi, con quegli “uomini neri”, fa teatro, chi cerca di creare comunità anche con lingue ed esperienze diverse, trovando disponibilità e partecipazione. Non si può far finta di nulla, star fermi o in silenzio, sembrano dire i nostri teatranti. Ma in tanti, la cosiddetta “pancia del paese”, storcono il naso.

Oggetto di contestazioni ad esempio è stato “Acqua di Colonia”, lavoro “sul rimosso del colonialismo italiano” della coppia Frosini/Timpano che con feroce ironia vanno a monte del problema immigrazione. Così come ha suscitato “scandalo” uno spettacolo per bambini: Thioro, ideato da Alessandro Argnani, regista, con Simone Marzocchi e Laura Redaelli, e interpretato da due attori senegalesi, Follou Diop e Adama Gueye. È un “cappuccetto rosso senegalese”, poetica e divertente rilettura della fiaba, aderente non solo alla tradizione ma anche alle suggestioni narrative popolari senegalesi. Ebbene: il lavoro è stato accusato di “lesa maestà” da Libero e altri giornali, scandalizzati, evidentemente senza averlo visto, che degli “africani” potessero impossessarsi impunemente di una favola “bianca”.

Al Teatro delle Albe non si sono scoraggiati. Marco Martinelli, che con Ermanna Montanari è anima della compagnia, ha incontrato il tema dell’immigrazione già negli anni Ottanta, con spettacoli interpretati da attori senegalesi e ravennati, in cui si alternavano wolof e dialetto romagnolo, entrambi incomprensibili, eppure vivi, vicini. E non si sono fermati: in Kenya hanno da poco messo in scena dei frammenti dell’Inferno dantesco con i bambini di una scuola di Kibera. Racconta Martinelli: «Parlare di “inferno”, in quello slum, è fuori da ogni metafora. La realtà è un incubo. Vedere i bambini nell’immondizia è choccante. Ma dobbiamo farci i conti: è il nostro mondo. Occorre essere lì, nell’inferno, per capire. Proprio come fece Dante: mettere il proprio corpo, lasciare la propria orma per capire».

Questa prospettiva pare essere peccato grave: creare “ponti” anziché “muri” è un crimine.
Non per i teatranti, però, che non si arrendono e quotidianamente sono sul campo, cercando di dare senso a parole ormai desuete come accoglienza, ascolto, integrazione, collaborazione. Lo spiega Michele Plati, presidente dell’Associazione Il Sicomoro, attiva in Basilicata nel settore accoglienza: «Si tratta di agire nelle comunità e il teatro è il mezzo principale, se non l’unico. Da qui dobbiamo ripartire per pensare nuove società». Se ne parlerà, a metà mese, a San Lazzaro di Savena, dove la compagnia Teatro dell’Argine ha organizzato Acting Together #WithRefugees 2, sessione di networking su arte e dialogo interculturale, pratiche ed esperienze di chi lavora con persone rifugiate, richiedenti asilo e migranti.

C’è - o forse c’era - un bel progetto creato da Mibac, che pensava a nuove comunità. Si chiama Migrarti, è stato inaugurato nel 2016: ideato e coordinato da Paolo Masini, da sempre attivo nel settore, ha avuto nel 2017 dal ministero dei Beni e delle attività culturali un milione e seicentomila euro per cinema e teatro. Cifra non altissima, ma investimento lungimirante. Nel momento in cui scriviamo, però non ne è ancora chiara la sorte: sarà rinnovato? Staremo a vedere come si regolerà il ministro Alberto Bonisoli. Intanto, Migrarti, la cui fase finale è prevista a fine novembre a Palermo, ha dato frutti, sia nei cortometraggi che nel teatro.

A Palermo, intanto, è andato in scena “Volver”, storia di tango e emigrazioni, frutto del lungo lavoro di laboratorio che la compagnia Babel Crew di Giuseppe Provinzano ha portato avanti negli anni con il “progetto Amunì”.
A Viareggio, i registi-attori Alessandro Garzella e Satyamo Hernandez si sono inventati la Festa della Cittadinanza Universale, happening di teatro, danza e musica, con un segno fortissimo: il Passaporto di Apolide Universale. Simbolica iniziativa, che ha come emblema il “terzo paradiso” di Michelangelo Pistoletto: «Il portatore di questo passaporto - si legge in prima pagina - chiede alle Autorità competenti di permettere al cittadino universale di oltrepassare senza indugio né difficoltà ogni confine in terra, in cielo e in mare e, in casi di necessità, di garantire ogni aiuto e protezione». Bello, no?
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A Capannori, sopra Lucca, la Compagnia Aldes di Roberto Castello ha proposto “Duran Adam”, ovvero “l’uomo fermo”, lo “stare in piedi”: un percorso di valorizzazione e di incontro tra culture, con italiani e stranieri, tra laboratori e spettacoli, danza contemporanea e musica.

Ma sono solo alcuni esempi, e molti altri se ne potrebbero fare. Carla Peirolero con Mohamed Ba e Goffredo Fofi, tra le tante proposte del Festival Suq di Genova, hanno messo in scena “La frontiera”, libro di Alessandro Leogrande. Asinitas Onlus, con un lavorio incessante tra pedagogia e spettacolo, ha presentato al Teatro India di Roma ben due esiti di laboratorio, affollatissimi di pubblico. La compagnia Teatro dei Venti di Modena, guidata da Stefano Tè, ha creato il Festival Trasparenze, aperto a varie situazioni di disagio, dove la coreografa Simona Bertozzi ha presentato “Poem of you”, affidato a un folto gruppo di immigrati.

È in questa rinnovata sensibilità al tema, infine, che il Romaeuropa Festival ha inaugurato l’edizione 2018 con “Kirina”, opera del giovane Serge-Aimé Coulibaly su musiche di Rokia Traoré e libretto di Felwine Sarr (già autore del saggio economico “Afrotopia”). Scelta coraggiosa: il lavoro, da noi poco noto, si è rivelato essenziale proprio come creazione contemporanea dell’Africa subsahariana francofona. Risponde, cioè, a un dubbio che comincia a circolare, legato alla tendenza, diffusa, di rapportarsi sempre e solo in un certo modo alla cultura e all’arte “africana”, ossia di raccontare l’immigrato solo “in quanto” immigrato, portatore di un problema e non di una cultura, di crimini e non di tradizioni.

Con buona pace di Wole Soyinka, Athol Fugard, Can Themba, di Tahar Ben Jelloun, Femi Osofisan, Ngugi Wa Thiong’o, Ama Ata Aidoo, o di Hamadou Hampaté Ba, tanto per citare i più noti drammaturghi africani, siamo ancora lontani dall’avere compagnie stabilmente multietniche nei nostri teatri maggiori - che siano davvero specchio della società - o che si cimentino su repertorio africano. Pur nella buona volontà e nell’entusiasmo dei teatranti, l’immigrato è ancora marchiato come il “poveretto della coperta termica”. Per raggiungere una maggiore consapevolezza e una qualità teatrale, «si tratta di superare lo stereotipo», dice il regista Antonio Viganò dalla sua Accademia Arte della Diversità di Bolzano, «di fare semplicemente teatro, senza buonismi, senza pregiudizi di consenso».

Il teatro può abbattere le barriere, aprirsi nei confronti dell’Altro, quell’Altro che è il “corebusiness” del nostro ministro degli Interni.
Ma riesce meglio, in questi intenti, se è “buon teatro”, se gli spettacoli sono di qualità. E quando accade, l’esito è straordinario. Come per “Medea sulla strada”, rilettura con accento rumeno del mito greco, affidata alla bravissima Elena Cotugno che racconta a sette spettatori alla volta una tragedia tutta contemporanea. O infine, con tenerezza e candore, per “Yeso Tang” del giovanissimo Ali Sohna visto al festival “Nessuno resti fuori di Matera”. Una storia umanissima e dolente. La sua. Dice Ali: «Il nostro non è un viaggio, ma una fuga obbligata. E ritrovarci a teatro, a festeggiare è straordinario».