Oggi gli intellettuali non possono permettersi di tacere. Dobbiamo esporci, rischiare, rimetterci in discussione. E creare ponti. Esponiamoci alle sberle di grillini ortodossi e leghisti granitici, se necessario. Può farci bene
Ma non fu illusione, anzi fu per noi acquisto ben saldo, l’aver appreso che gli intellettuali non tradiscono quando fanno politica, ma soltanto quando fanno una certa politica...
Norberto Bobbio, luglio 1955. Sono andato a riprendermi “Politica e cultura”, un libro di oltre sessant’anni fa, per cercare di calmare la strana inquietudine post-elettorale. Un po’ è servito. Non so se gli intellettuali hanno perso, come diceva provocatoriamente il titolo dell’articolo di Marcello Fois sullo scorso numero dell’Espresso; di sicuro, però, sono parecchio a disagio.
I leader delle forze vincenti sembrano non amarli, usano (o hanno usato fino all’altro ieri) l’etichetta come un insulto: «Voi intellettuali!». Salvini vittorioso brinda alla faccia di Roberto Saviano, ironizzando: visto come è andata? Così passa, o si consolida, l’idea che i professori stiano da una parte, fuori dal mondo, e il popolo, la gente, la vita vera da un’altra. Così - scottatissimi – i professori accettano, quasi in silenzio, l’analisi dominante: «Non avete capito niente». Quelli più disinvolti provano a riguadagnare terreno, a riposizionarsi in fretta: ma sì che avevamo capito, vi pare? Solo, non abbiamo fatto in tempo a dirlo, o stavamo scrivendo il prossimo grande romanzo, o eravamo a un Salone del Libro, o nessuno ci ha interpellati. Guai a dire a un intellettuale che si impegna poco: s’inalbera subito.
Un paio di anni fa, sempre su queste pagine, avevamo provocato, sull’eterno (o almeno ciclico) tema “engagement”, una decina di autori. I più si sono innervositi, anche giustamente. Non se ne esce.
Non si può pretendere - questo è vero - che chiunque scriva, o faccia cinema, arte in genere, se la senta di intervenire sul presente. A volte, non si ha l’inclinazione a stare al centro del dibattito. Altre volte, più semplicemente, non si ha niente da dire. Penso a una scena di “Mia madre” di Nanni Moretti, di una sincerità disarmante. La regista impegnata (Margherita Buy) si perde nei propri pensieri durante una conferenza stampa: «Tutti pensano che io sia capace di capire quello che succede, di interpretare la realtà, ma io non capisco più niente». Forse molti intellettuali hanno vissuto con questo stato d’animo la stagione politica più recente: con un Silvio B. più spompato e inoffensivo sulla scena, niente più barricate. Un misto di apatia, rassegnazione, “vada come vada”? Forse avremmo potuto - privi di risposte o convinzioni nette - porre qualche domanda in più. Mi è tornato in mente il solito Pasolini che, nel 1973, inchiodava i suoi colleghi a interrogativi perentori come: «Che cosa intendete per estremismo? L’estremismo è una posizione ideologica o un mero fatto di temperamento? Qual è la differenza tra estremismo e fanatismo? Alla fine, non credete che tra tutte le attività umane, la politica è o dovrebbe essere la meno estremista?».
Forse avremmo potuto mettere in discussione certe parole del lessico elettorale, chiedere per esempio che vuol dire esattamente il termine “sicurezza”, usato in tutti i programmi politici. Eccetera. Magari qualcuno fra noi l’ha fatto, anzi di sicuro: bene, bisogna restare a lavorare sodo là, nel campo dei dubbi – e alzare un poco la voce quando si fa una domanda, tenerla più bassa proprio quando si dà una risposta. L’anti-ideologico Camus insisteva a tratteggiare (incarnandola) la figura possibile di un artista-cittadino né seduto né bugiardo, non un dispensatore di certezze ma di dubbi, uno che rifiuta di dire agli altri come devono pensare, ma chiarisce con nettezza, con onestà i suoi sì e i suoi no. Uno che, come il romanzesco signor Grand, non dà le spalle alla peste, né si mette in ginocchio davanti a essa; non è rassegnato e non è vigliacco, preferisce una piccola verità coerente a una verità grandiosa. Procede in senso contrario alla sfiducia, contraddice ogni forma di cinismo ironico, e nella propria «interminabile sconfitta» resta comunque convinto che niente sia inutile.
Troppo vasto programma? Può darsi. E tuttavia, è anche quello da cui passa ogni occasione buona a saldare, a risaldare politica e cultura, a ripensarle parenti, alleate, non contrapposte. Ci riuscivano quotidianamente, e senza proclami, due persone - posso dire due intellettuali? - che abbiamo perso nel corso dello stesso anno 2017: Tullio De Mauro, nato nel 1932, e Alessandro Leogrande, nato nel ’77. Dimostrando, con i libri e con i gesti, che la cultura può (forse deve) non essere politicizzata, ma non può essere apolitica.
E ora? Che ci aspetti un governissimo o un governicchio, che a guidarlo siano i nuovi leader o un vecchio garante istituzionale, che possiamo fare? Quello che abbiamo sempre fatto, nel piccolo e nel grande, o qualcosa di diverso? Ci mettiamo idealmente all’opposizione o, altrettanto mentalmente, in una comfort zone, al calduccio del compromesso? Seguitiamo a navigare a vista o immaginiamo una nuova rotta? Ognuno farà come crede, ma direi: teniamo vivo il dialogo, il più possibile. Fra noi, ma non solo fra noi. Nei saloni e nei festival, ma non solo nei saloni e nei festival. Non stiamocene troppo zitti, in ogni caso. «Ristabilire la fiducia nel colloquio significa rompere il silenzio». È ancora Bobbio: «Nulla più del silenzio può costituire una cintura di difesa per il nostro dogmatismo, perché nulla più che la parola degli altri può turbare il nostro sonno dogmatico».
Ciascuno, aggiunge il filosofo, dispone di un piccolo tesoro di certezze personali che non mette di buon grado in discussione, che chiude gelosamente nel silenzio della sua intimità. «Ne facciamo tutti i giorni esperienza su noi stessi. Se quelle poche certezze vengono attaccate e scosse, bisogna ricominciare daccapo e ricominciare è faticoso. Più che faticoso è umiliante. Con gli altri parliamo assai più volentieri dei particolari decorativi della nostra costruzione metafisica che delle fondamenta. E quando la costruzione è compiuta o ci sembra compiuta tanto da considerarla stabile, allora è il silenzio, tante isole di silenzio».
Proviamo a creare, con tutti i mezzi a disposizione, ponti e ponticelli fra isole di silenzio. Non cerchiamo troppi rifugi. Esponiamoci alle sberle di grillini ortodossi e leghisti granitici, se necessario. Può farci bene. Rimettiamo sul tavolo i «nostri presunti tesori», facciamoli pure sbeffeggiare un po’, se questo serve a spezzare la catena del silenzio. «Renderci disponibili agli altri perché possano guardarci dentro e magari mettere tutto a soqquadro. Rinunciare alla presunzione che gli altri abbiano torto solo perché la pensano diversamente da noi».
Ci proviamo? Non avremo la tempra e la mitezza di nonno Bobbio, ma se il 4 marzo del 2018 è da considerarsi un anno zero, un inizio, un disastro o una grande occasione, comunque qualcosa di inusitato, tanto vale rompere qualche schema, provare a fare un passo nell’inesplorato. Se Di Maio e Salvini ci sembrano tanto abissalmente distanti da noi è anche perché non li abbiamo mai invitati a cena. Né ci hanno invitato loro, per carità. Ma io sono pronto a prenotare: non so se funziona, ma facciamo che l’invito è questo.