Sembrava il nuovo verbo anticapitalista, poi questo movimento è sparito dall’orizzonte. Ma può rinascere come esperienza di soddisfazione individuale
La “
decrescita” è una prospettiva etico-politica diffusasi rapidamente in tutto il mondo dopo la traumatica crisi finanziaria del 2008: una catastrofe globale che sembra essere già stata totalmente e sintomaticamente rimossa.
Ma che cos’è davvero la decrescita? Per Serge Latouche, filosofo ed economista francese tra i principali ideologi del movimento, «la decrescita non intende sostituire all’attuale e deleterio significato di “economia” e di “crescita”, un significato differente - magari dipinto di verde ed “equo-solidale” - che sarebbe finalmente quello buono. Si tratta, piuttosto, nientemeno che di
uscire dall’economia: un compito ancora profondamente incompreso dalla maggior parte dei nostri concittadini, per i quali è difficile accettare il fatto che l’economia sia divenuta una religione e che bisogna, quindi, cominciare a costruire una società realmente laica».
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Latouche - da uomo di sinistra che ha lavorato molto su Marx - ritiene anche che, per uscire da questo superstizioso «stato di minorità», ogni popolo debba riscoprire le proprie radici e tradizioni culturali. La decrescita, quindi, come sospensione della pretesa delirante e squisitamente imperialista di avere il diritto/dovere di giudicare i valori degli altri popoli in base a quelli “universali” che noi occidentali abbiamo creato, e conculcato a forza, in quasi tutte le altre culture del mondo. Ma anche, per noi europei,
decrescita come positiva riscoperta etica e umana, prima ancora che politica, dei lavori di un Karl Marx o di un Georges Bataille; o, per noi italiani, come «ruminazione» della disperata denuncia pasoliniana della «mutazione antropologica» del popolo italiano.
La decrescita è dunque una prospettiva che può spaziare dalla riduzione del “bisogno” smodato di viaggiare turisticamente, all’attutimento dell’enorme consumo di produzioni “intellettuali” di cui si nutre l’ipertrofia della cosiddetta industria culturale. Ma soprattutto, dal punto di vista etico, decrescita significa
sospensione radicale della fede ingenua che nutriamo nei confronti di quelle che ci appaiono “naturalmente” come le nostre più ovvie ambizioni e aspettative.
In Italia, a dire il vero, non abbiamo dovuto attendere Latouche per sentire Pasolini denunciare disperatamente, fin dai primi anni Settanta, la distruzione capitalistica e consumistica dei modelli culturali (ed esistenziali) in cui le classi meno abbienti potevano trovare felicemente di che “riconoscersi” e “realizzarsi”. Niente di più attuale di una simile denuncia in effetti, specialmente se consideriamo che - mai come oggi - i poveri hanno a disposizione esclusivamente modelli asintotici e irraggiungibili, che sembrano creati apposta per generare sistematicamente frustrazione e invidia sociale (se fai il cuoco devi diventare almeno un masterchef; se fai un mestiere umile devi almeno percepirlo come una cosa temporanea e di cui ti vergogni; nei telefilm à la page per ragazzine le protagoniste sono sempre aspiranti artiste, o super-eroine, e i poveri non esistono).
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Il problema del
fallimento del progetto decrescista - almeno in Europa e Usa, perché invece l’Uruguay ha avuto, fino al 2015, un presidente decrescista (Pepe Mujica) che ha trasformato radicalmente il paese - va ricercato nella sua
sostanziale mancanza di fascino. La decrescita infatti, questo è forse il vero limite strategico della prospettiva di Latouche, non può risolversi in una virtuosa autolimitazione che la comunità umana - finalmente “illuminata” - dovrebbe riuscire a imporsi per il bene dell’ambiente e dei rapporti sociali.
Questa idea, pur rispettabile, non è abbastanza radicale (né attraente). Per quale motivo infatti - potrebbe ribattere giustamente un signor nessuno - proprio io dovrei cominciare per primo a limitare la mia voracità di consumo, le mie abitudini altamente inquinanti e le mie ambizioni autoimprenditoriali, mentre tutti gli altri se ne strafregano?
La decrescita deve diventare qualcosa di più dell’aspirazione (in fondo moralistica) a diffondere negli altri un desiderio di “autolimitazione” rispetto al consumo, alle ambizioni e all’egoismo. Dovrebbe piuttosto riuscire a mostrare - come ha fatto Bataille, nella propria stessa vita - che l’uomo e la natura non tendono affatto a reinvestire “naturalmente” le proprie energie eccedenti per accrescersi indefinitamente (come vorrebbero la mitologia scientista dell’economia politica, il darwinismo sociale e tutto il neo-positivismo borghese), ma tendono piuttosto a godere nel liberarsene, nel distruggerle, nel consumarle in perdita.
La “nuova” decrescita dovrebbe presentarsi come un’esperienza della soddisfazione individuale, e di se stessi, che si ponga esplicitamente ed “egoisticamente” in concorrenza con quella condensata nell’etica del cosiddetto homo oeconomicus.
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Secondo la prospettiva “decrescista” di Bataille, infatti, l’uomo (e la vita in generale) non sono affatto caratterizzati da una tensione indefinita all’accrescimento, bensì da un’urgenza di scaricare, espellere, essudare l’energia che spontaneamente producono in eccesso. La dépense è per Bataille una vera e propria pulsione che tutto ciò che vive ha di “consumare” - di far “decrescere” - un’energia eccedente che se non venisse rapidamente dilapidata si rivolgerebbe contro l’organismo stesso distruggendolo.
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Ciò che è rimosso, escluso, censurato nella maniera più sottile dal nostro sistema di valori è infatti la gioia, la soddisfazione lucida e profonda, che tutto ciò che vive - uomo compreso - può provare nel non avere la minima voglia di “reinvestire”, nel circuito dell’utile e del profitto, le forze e i beni di cui dispone in sovrappiù. La “festa” è per Bataille il luogo (sacro e comune) in cui l’urgenza di questo sperpero, e il rifiuto radicale della logica dell’utile, si fondono dando vita a inedite forme di socialità e di soddisfazione. La “festa” di Bataille non si confonde con il consumismo capitalista, né tanto meno con l’idea latoucheana di una sobria e moralistica autolimitazione del lusso, della gloria e dell’egoismo, ma ci indica piuttosto la via di una loro profonda risignificazione al di là dell’utile. La festa come “altra scena” dove costruire nuove forme - non capitalistiche, né consumistiche - di socialità, di intimità e di amicizia; dove inventare nuovi significati delle parole «gloria», «consumo» e persino del tanto vituperato «egoismo». Uno stare insieme godutamente “in perdita” - chiamato da Marx anche “coscienza, o orgoglio, di classe” - che magari ci aiuti anche a vedere più chiaramente la parte che noi stessi “sfruttati” abbiamo finora inavvertitamente giocato nella logica di questa assurda «religione economica» di cui siamo - tutti - al contempo le vittime e gli artefici.