Si deve alla ferrovia la costruzione dello spazio e del tempo dello Stato. Ma oggi li vediamo sparire

Mai sprecare una crisi, come i gestori amano dire. Le ricorrenti paralisi del traffico ferroviario nazionale possono dunque forse insegnarci qualcosa. A patto di non perdere tempo con scaldiglie, gelicidii, scuse dell’amministratore e propositi del ministro. E di fare perciò un giro un po’ più lungo.
Per cominciare, bisogna pensare che la globalizzazione non ha nulla a che fare con la ferrovia, anche se essa se ne serve allo stesso modo di cui si serve degli apparati statali: quegli apparati che, così come oggi si presentano, sono proprio il prodotto del veicolo ferroviario. E ciò per la semplice ragione che si deve proprio alla ferrovia, nel corso dell’Ottocento, la costruzione del territorio statale secondo la logica dello spazio, di cui il locomotore è stato il principale agente. Si rimanda chi volesse una rapida, sapida e arguta descrizione del fenomeno, cioè della produzione spaziale del territorio, alle ultime pagine di Quer pasticciaccio brutto de via Merulana , dove la Campagna Romana diviene appunto il campo d’azione della macchina che Gadda chiama “l’ammazzagalline”, impietosa nella distruzione dei luoghi e dei paesaggi, cioè di ogni resistenza alla logica della metrica lineare standard.

Ma il testo canonico è al riguardo (naturalmente) Il Giro del mondo in ottanta giorni , il romanzo di Jules Verne apparso nel 1873. La cui idea centrale è formidabile: Phileas Fogg, l’eroe protagonista che si accinge all’impresa con il solo aiuto della guida delle strade ferrate a vapore, altro non è che la locomotiva stessa, nel senso che agisce e reagisce esattamente come un treno. Fogg, spiega Verne, è un essere perfettamente equilibrato, l’esattezza personificata, abile ad economizzare su ogni minimo movimento, naturalmente portato a scegliere il tragitto più corto e a ridurre ogni attrito, e perciò in grado di arrivare sempre puntuale. E dopo averci informato che per recarsi da casa sua al Reform Club Fogg spostava ogni giorno 575 volte il piede destro davanti al sinistro e 576 volte il piede sinistro davanti al destro Verne conclude che quel gentleman è un corpo che segue le regole della meccanica razionale, rispondendo soltanto alla legge di gravità. L’unica cosa a questo punto da verificare nel testo, ma ciascuno può farlo agevolmente per conto proprio, è se Phileas Fogg, come ogni locomotiva, fischiava e fumava.

Per Peter Sloterdijk, il più brillante tra i filosofi tedeschi di oggi, il romanzo di Verne è la precisa illustrazione del “traffico globalizzato”. Ma in questo caso Sloterdijk sbaglia di grosso, perché spazio e globalizzazione sono agli antipodi, come appunto a proposito della sfera terrestre è proprio il caso di dire. È vero, la globalizzazione si presenta come il risultato dei processi che David Harvey ha sintetizzato nell’espressione “compressione spazio-temporale”, e che l’impresa di Phileas Fogg mirabilmente illustra: l’insieme delle pratiche e delle tecniche che in epoca moderna, ma specialmente dall’Illuminismo in poi, hanno rivoluzionato, anzitutto nel senso della velocizzazione, il funzionamento del mondo, e di conseguenza la nostra rappresentazione di quest’ultimo.

Ma dall’estate del 1969, da quando cioè è nata la rete elettronica, la logica che presiede al governo del nostro pianeta ha sempre meno a che fare sia con il tempo che con lo spazio della modernità, che sono poi quelli della fisica classica. Essa si fonda anzi proprio sulla loro assenza, al punto da potersi affermare che la globalizzazione resta un fenomeno di difficilissima comprensione proprio perché il tempo e lo spazio cui siamo abituati vanno sparendo. Sloterdijk ha ragione: dietro un aspetto apparentemente normale il globo terrestre nasconde un sacco di “capricci metafisici”. Ma ha torto quando crede, come Harvey, che per afferrarli basti pensare che lo spazio abbia assorbito il tempo. Se la globalizzazione dipendesse dallo scorrimento del traffico ferroviario o autostradale (in tedesco autostrada si dice “ferrovia per le automobili”) anch’essa subirebbe, a causa delle paralisi, qualche blocco o rallentamento. Ma si può scommettere che così non è accaduto, appunto perché la sua maniera di procedere è antitetica rispetto a quella dello Stato. Al contrario il sistema delle vie ferrate e lo Stato moderno funzionano esattamente secondo gli stessi princìpi, si comportano come una grande macchina ed esigono direzione unitaria e movimenti coordinati, proprio perché ambedue sono agenti e allo stesso tempo risultato del modello spaziale: ambedue presuppongono ed insieme producono una distesa continua, omogenea e isotropica, in cui cioè tutti i punti sono rivolti verso un centro (la capitale) o un insieme di centri.

È un modello che la globalizzazione ignora completamente se non per capovolgerlo, in funzione di un pianeta concepito esattamente al contrario, come una distesa discontinua, eterogenea ed anisotropica. Tutti i discorsi su quella che viene detta postmodernità dipendono appunto dal tentativo di render conto, stando ai suoi effetti, dell’esito di tale capriola.

Molto più di questo, oggi, non si riesce a comprendere. Non esiste ancora una vera e propria storia della digitalizzazione, nata come sanno i cibernetici con il tentativo di mettere al riparo l’attività umana dalle intemperie, dunque con la casa di Adamo. Sotto tal profilo, la messa a punto della ferrovia, diretta applicazione sulla faccia della Terra della prima legge di Newton sul moto, ha rappresentato un passaggio fondamentale. La trazione meccanica che per prima essa ha assicurato ha consentito l’emancipazione del cammino da ogni lineamento della natura, esattamente come per Hobbes, il teorico dello Stato moderno, quest’ultimo si presentava come un corpo privato di ogni qualità e ridotto a pura estensione astratta perché campo di relazioni meccaniche.

Perciò dover adesso constatare che la strada ferrata non è al riparo dal maltempo è tra l’altro davvero la prova più icastica ed evidente di come da un livello di digitalizzazione del funzionamento del mondo si sia passato ad un altro, per cui non abbiamo (ancora) plausibili schemi di ricomprensione. Quel che sappiamo, o di cui comunque ci accorgiamo, è che i vecchi modelli non funzionano più. Se ne è accorto anche Matteo Renzi, che nel recente discorso in cui ha annunciato le sue future dimissioni ha tenuto a distinguere le “periferie geografiche” da quelle “quotidiane”, quelle cioè di natura semplicemente spaziale da quelle che invece sono il teatro della riproduzione della vita sociale, e che evidentemente non coincidono con le prime. Il che suona come una critica implicita del modello centro-periferia che proprio alla ferrovia deve la sua moderna potenza. Il mondo non è affatto piatto, come qualche anno fa Thomas Friedman voleva convincerci. E non è più una mappa cioè soltanto uno spazio, come tutta la modernità si è ingegnata che fosse.