Parla la mamma di un bimbo di 5 anni.  Che sta facendo passi da gigante, ma solo grazie a un percorso privato. «Le leggi esistono, ma sono solo belle favole, lontane dalla realtà»

“Se la prima cosa importante è la diagnosi precoce, la seconda è l’unità delle persone che si prendono cura del bambino. E c’è un percorso quotidiano, che costa impegno e soldi perché la sanità pubblica non lo garantisce ancora come dovrebbe”.

Roberta Buzzi abita a Comacchio con il suo compagno e il loro figlio Antonio. Sa che dall’autismo non si guarisce, ma sa altrettanto bene che un percorso strutturato può migliorare sensibilmente la qualità della vita e consegnare anche una bella autonomia. La diagnosi è arrivata presto, ad appena sedici mesi. Oggi suo figlio ha cinque anni e uno sguardo presente, è un bambino sereno che impara a stare insieme agli altri.

I disturbi dello spettro autistico riguardano 500mila famiglie italiane e 1 persona su 100 al mondo. Ecco perché il 2 aprile si celebra la Giornata Mondiale della consapevolezza dell’autismo, con eventi in tutta Italia, fontane e monumenti illuminati di blu. E proprio nei giorni scorsi, l’Ospedale Bambino Gesù di Roma ha annunciano la nascita di un network internazionale per sviluppare e condividere protocolli di valutazione, diagnosi e trattamento.

“Quello che chiamiamo comunemente autismo ha diverse forme”, dice Roberta. “Non esistono una ricetta unica e dei trattamenti fermi per tutti, ma è come cucire addosso un vestito che parte dalle caratteristiche individuali, passa per il gioco e arriva a insegnare cose che per loro non sono affatto naturali, come indicare con il dito, interagire e guardare davvero le persone. All’inizio era difficile parlarne. Per un genitore non è semplice ammettere che il proprio figlio abbia un problema e scatena molti sensi di colpa. Ma non volerlo affrontare non migliora di certo le cose. Anzi, le peggiora incredibilmente. Invece Antonio fa passi da gigante, che riusciamo a garantirgli solo grazie a un percorso privato”.

Tra centro per l’infanzia, educatori professionali nel centro e a casa, piscina, percorsi motori, musicoterapia, logopedia e laboratorio psicoeducativo, vuol dire che ogni giorno c’è qualcosa da fare, da imparare dagli specialisti per riproporlo a casa. E c’è anche da pagare, in un impegno che richiede dai 500 ai 1000 euro al mese. Eppure Roberta, che poi ha cambiato settore, lavorava già come tecnico di riabilitazione psichiatrica nell’Asl della provincia di Ferrara, con numerose esperienze in neuropsichiatria infantile.

“Non si tratta di scarsa fiducia in chi lavora nel “pubblico”. È una questione di possibilità. I fondi sono pochi, quindi sono pochi i medici, i tecnici e le strutture: saremmo riusciti a garantire ad Antonio un solo trattamento alla settimana e sarebbe stato troppo poco”. E le leggi? “Esistono. La 134 del 2015, l’inserimento dell’autismo nei LEA - Livelli Essenziali di Assistenza… Ma sono belle come le favole che non trovano riscontro nella realtà. Quale presente e quale futuro possono garantire ai propri figli le famiglie che non hanno certi strumenti o con genitori soli? Noi siamo fortunati perché lavoriamo entrambi, ma facciamo dei sacrifici e siamo costretti a macinare tanti chilometri in auto. I risultati, però, sono evidenti e dovrebbero essere alla portata di tutti”.

Quando ha raccontato la sua storia nel libro “Dolceamaro” (il ricavato va ogni volta a un’associazione diversa), Roberta ha sottolineato l’importanza della rete, di chi è accanto a qualcuno che soffre di disturbi dello spettro autistico. E che la parola “trattamento” non vuol dire solo un lettino e una stanza, ma anche azioni semplici come giocare, mangiare, chiedere o fare una determinata cosa.

“Non parlo solo di madre e padre, eventuali fratelli o sorelle. E non è necessario nemmeno che i genitori siano ancora insieme, ma sicuramente uniti. Parlo anche di nonni, zii e amici. Tutte le persone che fanno parte della nostra vita sono state messe al corrente fin dall’inizio e poi aggiornate, anche quando ci hanno detto che Antonio era molto grave. Sono venute a turno con noi nel Laboratorio Psicoeducativo di Agordo, in provincia di Belluno, dove prima andavamo una volta al mese, e adesso quattro volte l’anno e una settimana d’estate. Il clima che si respira deve essere sereno, perché i bambini come Antonio non sono speciali con bisogni speciali. Tutti i bambini sono speciali, mentre loro hanno dei bisogni specifici”.

Le associazioni sono un ottimo punto di riferimento per indirizzare, per uscire da una situazione iniziale di difficoltà e spaesamento. Consigliano a chi rivolgersi e hanno anche gruppi di autoaiuto, perché genitori e familiari portano addosso un carico emotivo che devono poter alleggerire.

“È un’altra mancanza dello Stato – continua Roberta – che non tiene in considerazione la complessità dell’autismo. E nemmeno la scuola è davvero preparata. I docenti di sostegno dovrebbero essere formati su disturbi e patologie specifici, invece soffrono anche loro questa carenza che poi ricade tutta sul bambino. Parlo sempre di bambini e ragazzi perché dopo i diciotto anni non esiste più niente. Cambiano anche le diagnosi e si passa a una più generica di disabilità intellettiva. Ma l’autismo non scompare affatto. Per deformazione professionale e per esperienza familiare, so riconoscere per strada un bambino autistico. Gli adulti, però, non li vedo. Spesso mi chiedo dove siano. A casa, mi rispondo, lontani dalla società e con le famiglie oramai stanche di essere state lasciate sole”.