Cultura
Il lavoro dei sogni è un affare per pochi privilegiati
Raffaele Ventura, filosofo convertitosi al marketing editoriale, spiega i problemi della classe media disagiata. Tante aspirazioni, poche possibilità di realizzarle. Soprattutto se si punta a una carriera nel mondo della cultura, dove c'è molta concorrenza. Ma leggere Marx potrebbe aiutare a insistere
Diventare scrittori o artisti. Stimolati dagli esempi di autori di successo. È il sogno coltivato da molti
giovani che sembra però scontrarsi con i dati disponibili: secondo l'Istat infatti, il settore letterario offre
infatti uno stipendio medio di 850 euro per i laureati di primo livello e di 1.158 per quelli di secondo
livello. Va peggio solo a chi si è formato in educazione fisica e a psicologi e giuristi.
«Sono mercati a collo di bottiglia: ovvero, con grande domanda per entrare ma poco ingresso effettivo –
spiega all'Espresso Raffaele Alberto Ventura, autore di Teoria della Classe Disagiata (Minimum Fax,
2017) - È importante dire che non c'è posto per tutti. Non riuscire a fare quello che si vuole nella vita è
storia dell'umanità da sempre, in fondo. Il problema è più che altro come riciclarsi quando queste carriere
universitarie offrono pochi sbocchi alternativi».
Ventura, esistono speranze di carriera per chi vuole occuparsi di cultura, almeno in Italia?
«Questi numeri sembrano dirci che per molti posti di lavoro è aumentata la soglia di esperienza e di studi da conseguire per accedervi (ad esempio, ci vogliono cinque anni di studio per fare quello che una volta ne richiedeva solo tre). Sono critico rispetto a questa situazione, perché si verifica non per vera necessità di acquisire molta esperienza da spendere sul luogo di lavoro, ma perché c'è tanta concorrenza. Ce la fa solo chi accumula più titoli possibili. Tutti devono spendere più soldi e questo taglia fuori molti.
I dati inoltre non tengono conto che chi fa studi umanistici tende a partire da una posizione agiata. Almeno riguardo gli Stati Uniti e l'Inghilterra esistono dati che confermano questa impressione.»
Il suo approfondimento nel mondo del lavoro è incentrato sul settore culturale, vero?
«Faccio tantissimi esempi letterari di aspiranti artisti che falliscono, come Martin Eden di Jack London e Jude l’Oscuro di Thomas Hardy, ma in realtà vorrei mostrare come quel modello sia l'avanguardia di un fenomeno più grande che riguarda una grande fetta della società. E’ in generale la classe media che si trova in crisi. Anche agli avvocati non va benissimo, come abbiamo visto dai dati. Io cerco di definire la dinamica delle aspirazioni partendo dalla mia esperienza di lavoratore nel settore creativo, che è quello in cui lavoro. Ma cito anche Rambo, che nel primo film della serie si lamenta del fatto che in Vietnam pilotava aerei da milioni di dollari e tornato a casa è costretto ad arrangiarsi.»
L'artista può vivere grazie ai mecenati che sovvenzionano le sue opere oppure può aspirare a diventare un professionista pagato per il suo mestiere?
«Non voglio dire che esiste un determinismo economico per il quale ce la fa solo chi ha i soldi; può essere che si abbia grande fortuna e quello bravo a disegnare ce la faccia. Però occorre stare attenti, c'è il rischio di non riuscire. Ce la fa uno su cento. Gli altri 99 vedono chi ce l'ha fatta e provano ad entrare. Ma da fuori vedono solo il sopravvissuto. Steve Jobs, ad esempio, è uno che nella vita ha avuto successo, ma non tutti possiamo essere lui, perché non tutti abbiamo avuto le sue possibilità.»
Cosa consigliare dunque ai giovani d’oggi rispetto al proprio futuro?
«Il mercato del lavoro italiano è disastrato in maniera simile ad una situazione post-bellica. Dopo aver scritto il libro mi trovo, a malavoglia, a ricevere richieste di pareri che non posso dare, soprattutto in una situazione italiana così confusa.
Mi sento però di dire che la prima cosa da fare secondo me è dare informazioni sufficienti. La gente si iscrive all'università senza avere idea di quanti anni di studio debba fare. E' importante saperlo, oltre ad avere un'idea di quanti soldi dovrà sborsare. C'è una distribuzione ineguale dell'informazione; alcuni hanno chiaro questo punto ed altri no. Comunque a meno che la situazione economica personale sia drammatica, ai giovani consiglierei di continuare gli studi. E' molto pericoloso delegittimare del tutto le proprie scelte, come fa chi per esempio abbandona del tutto le ambizioni letterarie e va pulire bagni. Non c'è bisogno di fare questo. Inoltre esistono anche compromessi tra lavori utili e che diano gratificazioni. Si potrebbe passare da occuparsi di filosofia a studiare ingegneria.”
Se lo Stato decidesse di investire di più nei settori intellettuali, creativi e artistici si potrebbe pensare ad un futuro migliore per questi mestieri?
«In teoria sì, potremmo immaginare di immettere risorse pubbliche per sviluppare questo mercato. Ma non dando qualche fondo a pioggia in più alle università. Occorrono progetti di politica industriale di lungo termine da fare con una visione specifica, pensando ad un nuovo modello economico e chiedendosi cosa vuole essere l'Italia a livello mondiale e come vuole valorizzare i propri asset. Bisogna anche chiedersi, in questo quadro, se sia davvero la cultura l’investimento principale da fare, perché occorre pensare a come garantire dei ritorni.»
Lei parla anche della “distruzione mutua assicurata” a cui vanno incontro i giovani che si fanno concorrenza a vicenda. Crede che si potrebbe pensare a incentivare modelli cooperativi di lavoro?
«Sono d'accordo, ma ho idee un po' più vaghe sul tema, nel libro ne parlo poco. Cito però la teoria di Ibn Khaldun secondo la quale le società che non cooperano collassano. Su questi aspetti sarebbe interessante rileggere le teorie sulla controproduttività di Ivan Ilich, su cui ho dialogato con Leonardo Caffo. Noi vorremmo far capire che la ricerca di produttività crea controproduttività. Lo stress sfiacca gli esseri umani, e non permette di farli vivere e funzionare bene. Anche le aziende degenerano se seguono questo modello. Sarebbe più umanista rinunciare alla tensione produttiva assoluta.»
Lei si occupa di marketing editoriale per un grande editore europeo e ha scritto un libro che ha
avuto un certo successo. È riuscito a realizzarsi?
«Sì e no. Il libro nasce dal mio disagio di persona che avrebbe voluto fare ricerca accademica in filosofia.
Invece a 26 anni sono emigrato in Francia, e ho fatto in un master dell'economia della cultura. Dovevo
ormai prendermi delle responsabilità per me stesso e per la persona con la quale stavo. Ora faccio
marketing in una casa editrice, un lavoro d'ufficio. È una sorta di downgrade, comunque intelligente,
rispetto a quello che avrei voluto fare. Sarebbe stato più difficile inserirmi nel settore letterario se avessi
scelto la ricerca. Comunque, con la vendita del libro non guadagno molto.»
Lei ha inserito come postfazione nel suo libro uno scritto giovanile di Karl Marx in cui il filosofo tedesco suggeriva di pensare a svolgere una professione che unisca le inclinazioni personali al perseguimento del bene dell'umanità. Voleva essere una maniera di dare consigli ai giovani che leggono la sua opera?
«In realtà l’ho inserito come contrappunto della tragicità di quello che avevo scritto in precedenza. Mi spiego meglio. Per essere felici vogliamo realizzarci, ma nel contesto attuale non c'è la garanzia che possiamo farcela; la realtà economica ci sta raggiungendo. Esiste un conflitto di fondo tra la bellezza e la ragione economica. Non possiamo solo scegliere la bellezza. Ma d’altro canto noi possiamo dirci uomini solo se ci realizziamo. Marx in quello scritto ci dice che conta soprattutto la felicità. Alla fine del libro volevo dare parola a qualcuno di più ottimista di me in questo senso. Io non riesco a sacrificarmi per la cultura o la filosofia, ma potrei avere torto, dunque ho lasciato parlare Marx che con quelle parole un po' mi contraddice. Se non ci fosse la propensione al sacrificio, non avremmo avuto Marx e nemmeno Caravaggio. Quello che fa muovere la società è qualcosa basato su una scommessa irrazionale. Purtroppo però esiste anche la tragedia.»