Che siano geografiche o elettorali, ci crediamo e ci affidiamo ad esse per capire il mondo. Perché producono pensiero, come l’inconscio

Un curioso paradosso misura, molto più di tanti altri concomitanti fenomeni, il divario che si allarga in questi giorni tra il funzionamento del mondo, compreso quello del nostro Paese, e l’immagine pubblica che ne abbiamo, dunque la nostra possibilità di comprensione. Divario che è all’origine, tra l’altro, proprio di quella distanza tra i discorsi dei politici e il sentire della gente nella cui illustrazione tanto volentieri si indulge.

Da un lato si sottolinea il vertiginoso aumento della disuguaglianza territoriale, la crisi della storica connessione tra le città e le periferie, l’intervallo economico e sociale che si spalanca tra sedi tra loro vicine, insomma il crescente scollamento tra prossimità e intensità della relazione che collega gli oggetti di cui si compone la faccia della Terra. D’altro canto per noi il territorio resta una mappa, corrisponde cioè ad un’immagine quasi del tutto incapace di restituire qualcosa della nuova realtà. Si pensi a come, dopo le ultime elezioni, tutti noi si creda che l’Italia sia distinta, provincia per provincia, in un sud tutto giallo dominato dai 5Stelle, un nord ed un centro azzurri controllati dal centrodestra, ed un piccolo grumo rosso che tra Emilia e Toscana sta per il centrosinistra. Come il giorno dopo lo scrutinio tutti i quotidiani hanno mostrato con una rappresentazione cartografica in prima pagina.

Perché crediamo tanto alle mappe, ci affidiamo così completamente ad esse? La risposta coinvolge il nucleo più delicato e nevralgico dell’intera concezione europea del mondo, e prima ancora (non sembri blasfemo) il più riposto mistero della fede: la natura del sacramento dei sacramenti, dell’Eucarestia. Basta tenere a mente un qualsiasi mappamondo medievale, magari quello gigantesco di Erbstorf, in cui un grande Cristo confonde il proprio corpo con quello circolare della Terra che abbraccia, in maniera che le due figure non si possono separare e distinguere l’una dall’altra. E collegare tale immagine alla disputa alla fine della quale, contro ogni eresia, il papa nel 1215 fu costretto a riaffermare con vigore la presenza reale, sull’altare, di entrambe le nature di Cristo: quella umana e quella divina. Attraverso il dogma della transustanziazione il pane consacrato venne perciò definito come il corpo vero e naturale del figlio di Dio. E così come l’ostia divenne, in virtù del mistero eucaristico, il vero corpo di Cristo, allo stesso modo la mappa, ostia della Terra, si mutò da corpo simbolico nel vero corpo di essa, nella Terra stessa. Come altrimenti spiegare la cieca fiducia nelle mappe, il fatto cioè che quando esse pretendono di dire la verità noi crediamo loro senza nessuna riserva? Tale fiducia corrisponde ancora per noi ad un atteggiamento comune e fin qui irriflesso, ma le cose non sono affatto così semplici.

Ogni mappa è una mente, un’agenzia produttrice di pensiero come diceva Freud a proposito dell’inconscio, e tende a produrre generalizzazioni di norma indebite perché assolute, come ad esempio quella, adesso in voga, che vede contrapposti i centri alle periferie, le metropoli alle province. Così alla lavagna ( prototipo di ogni mappa in virtù della sua struttura tabulare ) una volta si distinguevano a scuola i buoni dai cattivi, gli uni da una parte, gli altri dall’altra, separati da una linea. Viene da chiedersi se senza la lavagna tale distinzione sarebbe possibile, perché quest’ultima si fonda su di un’opposizione binaria che soltanto su una tavola può esistere. Su un piano infatti un segno o c’è o non c’è, non si dà una terza possibilità, mentre pensare significa esattamente il contrario, vuol dire tenere insieme le alternative. Per sapere davvero se qualcuno ci ama o non ci ama non serve infatti il pensarci ma trasformiamo una margherita in un naturale dispositivo binario, in cui ogni petalo corrisponde o a un sì oppure a un no, e il responso dipende dal loro numero.

Di fatto i due procedimenti, quello elettorale e quello cartografico sono la stessa cosa, funzionano alla stessa maniera perché obbediscono alla stessa logica: in ambedue i casi una serie di indicazioni puntuali finiscono con il comporre un disegno complessivo che obbedisce ad una misura, e la materiale struttura del Parlamento (la cui composizione è la proiezione delle scelte politiche dei singoli elettori) esprime in forma immediata tale coincidenza, anzi omologia.

Ha spiegato Jean Starobinski che al tempo della Rivoluzione del 1789 il Terzo Stato, cioè l’insieme della borghesia, dei contadini e degli operai, era guidato dal modello dello “spazio omogeneo e isotropo” della meccanica celeste, permeabile in tutti i sensi alla forza indistintamente valida della gravitazione universale. Ma Starobinski dimentica di aggiungere che prima di essere celeste o terrestre, quello del Terzo Stato è appunto lo spazio della rappresentazione cartografica, da cui sia lo spazio del cielo che della Terra ormai da secoli dipendevano idealmente. In altri termini: l’uguaglianza di marca giacobina su cui si fonda ancora oggi la democrazia rappresentativa discende da quella dei punti geometrici su un piano. In vista dell’organizzazione amministrativa da attribuire alla Francia rivoluzionaria l’abate Sieyès, l’araldo del Terzo Stato, non aveva alcun dubbio: il territorio è una mappa vuota, da suddividere, articolare e qualificare secondo le esigenze di una ragione incorporata nella geometria euclidea, cioè nella logica spaziale che deriva dalla mappa stessa.

Il Quarto Stato, di Pellizza da Volpedo (foto: Ansa)


Insomma: l’idea di rappresentanza è la replica diretta ed immediata della rappresentazione cartografica. Ed è proprio questa la ragione per cui oggi, al tempo della globalizzazione che scavalca il funzionamento spaziale del mondo, rappresentazione cartografica e rappresentanza politico-elettorale sono ambedue in crisi. Una crisi che, per tornare alle immagini relative alle ultime elezioni, si esprime nel carattere eccessivamente grossolano della rappresentazione-rappresentanza stessa. Da tempo gli analisti del marketing sono giunti alla conclusione che ogni individuo è un mercato a se stante. E non è un caso che lo scandalo di Cambridge Analytica, relativo al trattamento e all’uso di dati ceduti da Facebook a soggetti privati, riguardi proprio la possibilità di profilare in modo ancora più preciso e discreto (nel senso matematico e insieme sociale del termine) il patrimonio mentale dei singoli individui: le chiamano “psicografie”, e servono alla pervasiva manipolazione della volontà generale.

La provincia italiana sarà anche la “provincia del fascismo”, come ha concluso chi, incredulo, ha appeso di fronte a sé la mappa gialla-blu-rossa dell’ultima consultazione nazionale. Ma le nostre province sono (ancora) anche la sede dei migliori istituti pubblici di istruzione superiore che al mondo esistono, tanto per dirne una. Si tratta perciò di non lasciare al monopolio delle onnipotenti piattaforme elettroniche il comando e l’uso delle nuove tecnologie di rappresentazione e comunicazione. Rispetto alle quali ogni immagine cartografica, indipendentemente dalla bontà e dall’attualità dei dati sulla quale è costruita, può soltanto raffigurare il mondo di ieri, e non il nostro. È questa la battaglia, politica e insieme culturale, che è urgente iniziare a combattere, prima di darla per persa.