La rivoluzione. I sogni. La natura. La fede. E l’impegno degli intellettuali. Due scrittori si confrontano sui temi del Maggio francese. 50 anni dopo 

Comincia con uno scambio di letture: Roberto Saviano suggerisce Mark Fisher, “Il Realismo capitalista”, la sfida è «immaginare un mondo che non esiste più». Paolo Giordano propone Wolfgang Streeck, “Come finirà il capitalismo?”: «Il problema è immaginare il dopo».

Intanto, qui e ora, arriva in libreria “Divorare il cielo” (Einaudi), l’ultimo romanzo di Paolo Giordano. L’occasione per un faccia a faccia tra due protagonisti della generazione anni Ottanta. E si capisce subito che il dialogo andrà lontano: tra responsabilità e disimpegno, desiderio di sacro e fideismo tecnologico, le pagine del libro - il sogno alternativo di un gruppo di ragazzi che diventano adulti intorno a una masseria pugliese - guidano un percorso di temi comuni. E di atteggiamenti che più agli antipodi non potrebbero essere: Saviano immerge le mani nella vita, a partire dal marcio. Giordano la osserva con distacco: perché siano fantasia e preveggenza a guidare il suo racconto. Sullo sfondo, quel maggio francese che esattamente 50 anni fa incendiò le strade di Parigi, diede la parola a studenti e operai, illuse tutti di un cambiamento radicale. E lasciò un falò di sogni: realizzare un mondo giusto, amare senza convenzioni, rispettare l’ambiente e la natura. Gli stessi ideali di Bern, Tommaso, Nicola e Teresa, gli adolescenti di Giordano che rinnovano il sogno di vivere liberi e di condividere tutto, persino la stessa ragazza. Finché non si ritrovano spalle al muro. E allora il collettivo ritorna individuale, sul pubblico prevale il privato.

Credo che questo romanzo chiami in causa di continuo il tema della responsabilità. Cosa vuol dire essere responsabili oggi: come generazione, come individui?
Saviano: «Ho trovato l’operazione letteraria di Giordano molto coraggiosa. Da equilibrista, quasi: ha affrontato il tema del rifondare un mondo dentro una dinamica comunitaria e il tema ecologista senza mettere in ridicolo chi lo pratica oggi in modo quasi mistico: penso ai melariani, ai seguaci di Osho, ai davidiani. Giordano smonta l’illusione di poter essere veramente diversi. Da un lato dà l’impressione che l’unica strada per la libertà sia fuggire dalla responsabilità, dall’altro affida a questo gruppo di persone il compito di fondare una nuova forma di responsabilità: un nuovo rapporto con la natura, coi sessi, di fratellanza. Ma scatta un corto circuito: l’idea del fallimento è implicita in loro. È come se tutti sapessero che qualunque sarà la scelta non potrà che andare male. Anch’io ho trovato la responsabilità il centro del romanzo. Ma è un “assalto al cielo”, per citare il Maggio francese, che la condizione umana zavorra: non c’è speranza di spiccare veramente il volo».
Giordano: «Non mi ero reso conto che il fallimento fosse un’idea così intrinseca. Avevo chiaro che questi ragazzi reiterano la stessa dinamica per tutto il libro: Bern ricerca la fede persa e la reincarna ogni volta in un credo differente. Ma che ci fosse un fallimento a priori nel suo modo di fare è una falla inconscia. E una differenza sostanziale con l’idea di cambiamento concreto predicato nel ’68».
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Il maggio francese, in realtà, è stato letto da molti come un fallimento. Ma anche il misticismo del romanzo richiama il ’68: penso alla figura del santone Cesare, una specie di sadhu indiano, che predica la metempsicosi. Come le è venuto in mente?
Giordano: «Un paio di anni fa ho cominciato a interessarmi a una storia che aveva al centro un guaritore. E un tema sul quale rifletto da tempo è l’assenza di fede di oggi. Se osservo i miei coetanei tutti hanno un guru, che sia l’osteopata o lo psicanalista, e inseguono forme di guarigioni personali che sfamano quella parte di assoluto che manca. Lentamente il personaggio di Cesare è diventato anche quello del padre, la cui assenza è un mio tipico tema».
Saviano: «Il punto di vista di un mondo nuovo, mistico, in effetti si riallaccia a un pezzo dell’insurrezione movimentista degli anni Sessanta. Penso alla vicenda di Mauro Rostagno, che ho sentito riecheggiare dentro il libro. Visto il fallimento della possibilità di riformare la società attraverso il socialismo, la reazione è stata realizzare il cambiamento dentro di sé. Tiziano Terzani fu maestro in questo, perché riuscì a traghettare una scelta che poteva persino sembrare ridicola in una rivoluzione interiore. Il libro di Giordano oscilla tra questi due piani: cambiare l’esterno e l’interno. Io invece sono proteso verso il fuori, tendo a raccontare dinamiche esterne. E vedo oggi un rapporto col sacro continuamente condizionato da aspetti contingenti. Persino la forma più folle, il radicalismo islamista che porta a morire, nella realtà non ha nulla di metafisico, perché prevede una ricompensa con tanto di vergini, di droga, di riscatto dal ghetto. Nelle pagine del libro c’è una riflessione sulla ricerca di un assoluto che vada oltre il profitto e lo scambio. Le generazioni precedenti più facilmente hanno trovato una strada verso il trascendente. Oggi è impossibile: c’è sempre qualcosa che ti ricorda che ciò in cui stai credendo non vale la pena».

C’è un vuoto di sacro. Ma anche di sogni. I ragazzi del maggio francese, “The Dreamers” di Bernardo Bertolucci, forse non sapevano come conquistare il potere, ma di certo sapevano sognare. La sera del 6 maggio 1968 migliaia di ragazzi inondano il Quartiere Latino. La piccola bastiglia di Nanterre ha acceso la miccia e un fiume di giovani festosi invade gli Champs-Élysées, canta l’Internazionale, chiede la riforma dell’università e salari più giusti. Anche i protagonisti del libro fanno sogni grandi. Perché i ragazzi, di fronte a ingiustizie continue, non scendono più in piazza?
Giordano: «Io non scendevo in piazza neanche al liceo, quando si manifestava contro la globalizzazione. A 17 anni sentivo tutto troppo astratto. E non prendevo parte alle manifestazioni perché mi sembrava una forma di omologazione».
Saviano: « È interessante questa tua esperienza, che nel libro ti ha permesso di avere una posizione non ideologica. Se guardi i libri su chi ha tentato l’assalto al cielo c’è sempre una simpatia, una nostalgia. A partire dagli avversari contro cui ci si scagliava, che erano giganti: penso ad André Malraux, antifascista, eppure visto come l’establishment nemico della fantasia al potere. C’è nostalgia per quella gioventù, per la libertà dei corpi in cui credeva. Oggi non è che si sia persa la voglia di stare in strada: è diventato un gesto conformista, sono d’accordo. Anche se io, da studente, manifestavo: però con l’illusione di farlo in modo diverso. Non volevo far parte di una comunità, volevo entrare in una comunità per cambiarla».
Giordano: «Tu scendevi in piazza, io no. Si vedeva quello che saremmo diventati».
Saviano: «Credo che oggi il web abbia sostituito la partecipazione fisica. Anche in bene. Qualche settimana fa è partita in Italia l’iniziativa del selfie con la mano sul volto. L’ho innescata io per denunciare gli attacchi con gas in Siria. Non ha inciso sui fatti, però ha generato consapevolezza. Al tempo stesso il web dà spazio a odio e superficialità, per il solo fatto della distanza fisica tra le persone: la stessa gente che ti insulta difficilmente ti direbbe quelle cose in faccia, probabilmente te ne direbbe di più interessanti».
Giordano: «Sono diverso da te anche in questo: mi tengo fuori dalla piazza del web perché questa furia mi atterrisce. Bisogna avere gli enzimi per stare dentro questa lotta. Io ne vengo annichilito. Però ho l’impressione che non sia la stessa cosa delle rivolte di una volta: la condivisione di corpi è diversa dall’anonimato».

Ha preso parte a proteste ambientaliste, per raccontarle nel libro?
Giordano: «No. Una cosa che io non faccio mai prima di scrivere è documentarmi: voglio evitare di sentirmi inchiodato ai fatti. Sono andato una volta a vedere un presidio contro l’abbattimento degli ulivi a causa della xylella. Però tutta la ricerca di documentazione l’ho fatta dopo: solo per vedere se c’erano stati episodi ai quali mi ero avvicinato. Per me scrivere è presagire, sfiorare qualcosa senza ancora conoscerlo».
Saviano: « È interessante: come scrittore riconosci l’impossibilità di cambiare il mondo, e cerchi di comprometterti il meno possibile. Tutta la tua letteratura è così. Tu hai detto: io non mi documento mai. Mentre io perdo la vita a documentarmi. E mentre tu facevi questa affermazione, io sentivo l’enorme senso di liberazione. I nostri obiettivi sono diversi: lo scrittore non vuole essere aggredito dalla realtà, vuole sentire le emozioni e non farsi condizionare. E anche i tuoi personaggi agiscono così: cercano un modo decente per vivere, senza fare del male agli altri, ma senza neanche sforzarsi di cambiare il mondo. Rispecchiano la contemporaneità. Mi spiego meglio. Oggi si dibatte sui limiti enormi di fronte alla tecnologia. Se io ho bisogno di dormire 8 ore per stare bene, cosa me ne faccio di una massa di informazioni che dovrei ottenere senza mai fermarmi? Deve cambiare l’uomo. Nella testa di un ragazzo di 15 anni, la tecnologia è uno spazio infinitamente superiore rispetto a quello che può ottenere nella politica e nella società. E questo è terribile, perché in realtà la tecnologia da sola non porta a nulla».

La rivoluzione si è spostata su un piano personale. E le utopie che fine hanno fatto?
Saviano: « L’utopia, cioè il sogno di una cosa per citare Marx e Pasolini, si realizza nella possibilità individuale di cambiare: tua, della tua famiglia, della tua cerchia di amici. Nella società del web, dove persino il sesso è un gesto conformista, la nuova utopia diventa poter risolvere il tuo quotidiano. Senza un’idea, se non marginale, di riscatto e di emancipazione».
Giordano: Mi appassiona questo aspetto della tecnologia, probabilmente perché provengo dal mondo della fisica. Nel libro c’è un punto non casuale, quando i protagonisti passano dall’utopia dell’agricoltura sostenibile in masseria alla ricerca dell’inseminazione artificiale a Kiev. C’è discontinuità etica fra le due cose, che però non avvertono perché, cambiato il desiderio, hanno mutato anche i parametri etici. È un rischio che sento. Nel senso che abbiamo tanti desideri, in continuazione, a ogni età, moltissime possibilità per realizzarli, e per questo adattiamo continuamente i nostri valori».

«La verità è morta. È una lettera dell’alfabeto, una parola, un materiale che posso utilizzare», dice un personaggio nel libro, a sottolineare questo relativismo. Ma trovare nel cambiamento personale la strada per la rivoluzione non è il contrario di quello che ha sempre chiesto lei, Saviano: la necessità di schierarsi, uscire allo scoperto?
Saviano: « Ogni cambiamento, sociale e politico, nasce e pretende un cambiamento individuale. Io, da scrittore civile, non ho mai avuto grandi speranze nella trasformazione dei molti, piuttosto grandi speranze nella consapevolezza dei pochi: cioè che la consapevolezza che vado a cercare occhio nell’occhio, mano nella mano, sia l’inizio di un percorso lungo e complesso. Ma oggi tempo e complessità suscitano diffidenza. Se ha bisogno di tempo, come i libri, diventa superfluo. Oggi la logica che percepisco è che sia meglio una cosa fatta male ma subito, invece che fatta bene ma con un po’ di tempo in più. Perché se hai un’idea devi sbrigarti, o ci sarà qualcuno che ne avrà una simile e prima di te. Perciò cambiare nella propria interiorità non è in contraddizione, è la premessa per un cambiamento sociale. Va aggiunto che l’idea di cambiamento è sempre più delegata a strumenti: alle app, ai software. Siamo fuori dal campo delle scelte politiche. Questo succede ai protagonisti del libro: la scelta etica iniziale - rispettare l’ambiente, vivere in una comune - alla fine si sposta verso la manipolazione genetica, la ricerca della vita a tutti i costi. Perché siamo dentro un mondo così complesso che le scelte individuali non riescono a resistere. Ecco perché comportamenti come il non mangiare carne sembrano risposte dogmatiche, mistiche, a problemi irrisolvibili».
Giordano: « Mi fai pensare a un libro bellissimo, “La vegetariana”, della coreana Han Kang. La protagonista diventa vegetariana con questo spirito: impongo almeno la mia volontà su questo piccolo pezzo di orticello che mi appartiene, il mio corpo, perché ho un’impossibilità totale di incidere sull’esterno. Nella realtà avviene di continuo: ci sono utopie intelligenti disseminate per la Puglia o in Campania, dove forme di agricoltura sostenibile sono il riflesso di persone che hanno studiato, ragionato, e impongono la loro volontà sull’unica cosa che possono controllare ancora: un fazzoletto di terra. Siamo lontani dai sogni del ’68. E mi colpisce la tua consapevolezza sull’impossibilità di coltivare oggi la complessità. Io vedo in te, al contrario, una persona che si comporta come se spinto da una fede».
Saviano: «La fede è che un buco nella rete ci sia. E che laddove c’è uno spazio di condivisione, puoi versare dei contenuti. La sorte di un oggetto che richiede tempo e voglia di complessità come il libro è terrificante perché siamo davanti a dei punti di non ritorno: penso all’ansia da notifica e di non poter controllare WhatsApp, durante la lettura. Per molti anni si è ripetuto che leggere è faticoso, è costoso, c’è l’insidia della tv. Ma gli spazi c’erano: il letto, l’aereo, il treno, la panchina, il bagno. Oggi sono occupati dal cellulare. Perché continuo a essere positivo? Perché ho l’ottimismo della volontà: credo che immettere contenuti nelle piattaforme possa ancora cambiare qualcosa. Anche se gli effetti non sono misurabili».

L’impegno dei protagonisti di “Divorare il cielo” si addensa intorno alla battaglia ambientalista. Ci sono i movimenti di difesa degli ulivi. C’è un’Islanda, rappresentata più che come espressione di natura pura come l’Antropocene realizzato. La difesa dell’ambiente è una direzione che molti esponenti del Maggio francese hanno preso, a partire da Daniel Cohn-Bendit.
Saviano: «È vero. L’ecologismo di Cohn Bendit o di Joschka Fischer in Germania o di Alexander Langer si connette al tema delle utopie: di fronte al capitalismo, al socialismo reale che, realizzato, è di gran lunga peggiore della peggiore democrazia, ci si chiede che fare: se cercare la fuga dentro di sé. Oppure salvare quelle risorse di cui anche il capitalismo non può fare a meno: l’aria, il cibo, il rapporto con gli animali, i mari, l’acqua. È una negoziazione: non è più possibile la rivoluzione che abolisca la corsa ai soldi, al profitto. Scelgo una strada ecologica, che permetta uno sfruttamento delle risorse in equilibrio. L’ecologismo diventa una posizione intermedia tra socialdemocrazia e realpolitik e il sogno rivoluzionario totale. Forse l’ultima fede davvero rimasta è quella dei vegani. O di chi decide ogni giorno di separare la plastica dai rifiuti…».
Giordano: «Come me: io sono un fondamentalista della raccolta differenziata!».
Saviano: «Perché senti che la tua azione può ancora contare qualcosa. Quanto sarebbe più facile dire: cosa cambia se io butto tutto insieme nella spazzatura?».
Giordano: « A me l’ecologia sembra l’unico credo davvero egualitario verso il mondo. Riguarda tutti allo stesso modo. I cambiamenti climatici coinvolgono ricchi e poveri del mondo. Ci inchiodano a un’idea di uguaglianza. E con un atteggiamento di realpolitik: non è che noi lottiamo per cancellare il cambiamento climatico, cerchiamo di limitare i danni. È un’etica che ha già incorporato l’idea di fallimento, e fa il possibile per attenuare le conseguenze. Anche questo è un atteggiamento molto contemporaneo».
Saviano: «Aggiungo che la possibilità che scelte individuali cambino una comunità e producano un risultato, è complicata da un’altra cosa. In passato chiunque esprimesse le sue idee si trovava di fronte a una comunità propensa a condividerlo o a gente che per il solo fatto di aver speso del tempo ad ascoltarlo si poneva in un atteggiamento di dialettica. Oggi ogni idea viene comunicata attraverso piattaforme che attirano una tale quantità di odio, che qualunque idea, anche la più bella, la più alta, è sottoposta a uno stress che ne renderà difficilissima la realizzazione. Se oggi un poeta avesse postato: “M’illumino d’immenso”, sotto avreste letto: “Ah, sì? Bella cazzata che hai scritto! “Bravo, coi soldi dello Stato scrivi ’ste scemenze”, e cose simili. Che cosa comporta leggere questi commenti? Pressione, ansia: probabilmente il poeta non scriverebbe più gli stessi versi, comincerebbe a negoziare. Se Il Borghese scriveva che Pasolini era un vile e un imbroglione, a leggerlo erano i lettori di quel giornale. Oggi tutti si imbattono con facilità in quell’articolo, che poiché è molto “cliccato” - attenzione, non “comprato” che implica una scelta-, infetta della stessa ferocia altri giornali. Si può ancora resistere? È talmente grande la massa di cose che ci vengono addosso che decidere cosa vogliamo essere, fissare i perimetri della nostra vita, è ogni giorno più difficile».

È il Sud, come suggerisce il romanzo, il laboratorio delle ultime utopie: di questo modo nuovo, nient’affatto scontato, di stare al mondo?
Giordano: «Da uomo del Nord, noto di più le cose del Sud: mi appaiono con più evidenza. Vedo più i contrasti, e quindi anche le cose luminose. Il Sud è estremo in tutto: nella natura, nell’espressività, e anche nel degrado e nei tentativi di reazione. Anche perché lì diventa una questione di vita o di morte».
Saviano: «È proprio così. Il sud d’Italia, ma in generale il sud del mondo, e a dirla tutta le periferie dove il diritto non c’è e devi sostituirlo con creatività furbizia genio, ha capacità di stare al mondo superiore. Perché non hai le garanzie, i diritti, non puoi contare su strade già battute. Il Sud in questo momento è in una situazione drammatica, con delle eccezioni rare e fragili: come la Puglia. Sì, è ovvio che il cambiamento debba partire da lì».