Intervista
Andrea Camilleri: «La cecità mi ha reso libero. Non devo più vedere la mia faccia da imbecille»
Colloquio a tutto campo con lo scrittore siciliano. Dal teatro, agli affetti, alla politica: «Io temo che questi individui sono capaci nel giro di ventiquattro ore di farci inghiottire dal mercato, di ridurci come Don Falcuccio, con una mano davanti e una di dietro»
Tiresia è una figura che mi ha sempre affascinato e che ho coltivato nel tempo. Ricordo il piacere che ho provato quando ho letto la prima volta “La terra desolata” di Eliot. Fino ad allora di Tiresia avevo un ricordo non proprio glorioso, in teatro lo avevo visto interpretare da Annibale Ninchi, indubbiamente un grande attore, ma la sua recitazione era orientata a sopraffare il personaggio di Edipo, e mi sembrò persino ampollosa.
Ricordo che, tornato a casa, presi il testo, lo lessi e fu allora che pensai che il personaggio avrebbe meritato un tono più dimesso. Proprio quello che ha fatto Eliot nel suo poema».
Andrea Camilleri, partiamo dunque da Tiresia. Quando hai incontrato per la prima volta questo personaggio?
«Quando diventa a tutti gli effetti personaggio, cioè leggendo Sofocle, l’Edipo Re».
Perché lo hai scelto come tuo eroe?
«L’idea di raccontare e impersonare Tiresia, a parte la recente parentela di cecità, nasce proprio dalla voglia di pronunziare certe parole nel buio, la voglia di far risuonare il suono delle parole di Tiresia, e anche i versi di Eliot, nel buio della cecità. Nel mio testo c’è un momento in cui cito Borges e dico che le parole di Sofocle ascoltate nel buio della cecità acquistano il suono della verità assoluta. Insomma, ho scelto Tiresia d’impeto. Quando mi è stato chiesto che personaggio avrei voluto fare a Siracusa, me lo sono subito sentito dentro, forse perché al punto in cui sono arrivato mi piacerebbe avere una idea più precisa dell’eternità. A 93 anni, hai certezza del fatto che l’eternità ti stia venendo incontro, qualunque essa sia, e qualunque forma essa abbia».
Com’è cambiata la tua vita da quando non vedi più?
«Primo Levi dice che riuscì a salvarsi dall’orrenda metamorfosi a non-uomo vissuta ad Auschwitz con la poesia. Io mi sono salvato con la scrittura. Pensavo di non poter più scrivere. Come fa un cieco a scrivere? Avrei potuto dettare, ma l’avrei dovuto fare in una lingua che non è esattamente la mia, cioè l’italiano. E non avrei più potuto scrivere i miei bei Montalbano in vigatese. Fortunatamente è intervenuta Valentina Alferj. I sedici anni vissuti accanto a me hanno fatto sì che potesse aiutarmi. Negli ultimi tempi, padroneggiando perfettamente la mia lingua, Valentina era in grado di correggere le bozze per conto mio e dunque al momento cruciale è stata la mia ancora di salvezza. Certo, la mia vita è mutata perché sto imparando una cosa abbastanza complicata, ma impararla a 93 anni non è così difficile per me, perché nella mia vita io non sono mai stato un uomo superbo, mai. È una colpa che non potrà mai essermi imputata. Da quando sono cieco sto imparando l’umiltà della dipendenza dagli altri. Gli altri erano già importantissimi per me, ma ora hanno acquisito una importanza che non è valutabile. Sono completamente dipendente dalla cortesia e dalla gentilezza di chi mi circonda. Mi sono dovuto abituare a tutto questo. Ma questa lezione di umiltà è stata comunque salutare, e l’ho accettata di buon grado».
Pensi che la cecità abbia influenzato la tua scrittura?
«No, credo di no. Forse mi ha fatto più riflessivo, o leggermente meno impetuoso. Insomma, oggi mi concedo uno spazio maggiore di riflessione».
Un illustre critico letterario, Silvano Nigro, sostiene che negli ultimi Montalbano tu cerchi di liberarti del romanzo giallo per approdare al romanzo tout court. Sei d’accordo?
«Se questo è vero, è dovuto a un piano. Gli ultimi Montalbano hanno la stessa scrittura dei miei romanzi storici, mentre prima si differenziavano. La scrittura dei Montalbano, sia pure in vigatese, era molto semplificata. Ora sono riuscito a non fare più distinzioni tra un romanzo storico, scritto rigorosamente, e i Montalbano, nei quali concedevo qualcosa anche alla casalinga di Voghera. Non ho più bisogno di questo, i due linguaggi possono essere uno solo».
Resta il fatto che tu sei uno scrittore per molti versi inclassificabile. Sei un grandissimo, amatissimo, scrittore di romanzi gialli ma scrivi anche romanzi che hanno un tono completamente diverso. In alcuni sembri metterti in ascolto del male, con risonanze dostoevskiane.
«Sì, ma direi che questo ascolto c’è sempre stato nei miei romanzi, anche in Montalbano. È la cosa che mi interessa di più. Da sempre. Negli altri a cui ti riferisci sondo un male che si può definire assoluto. Io sono stato un appassionato lettore di Bernanos, del suo “Mouchette”. Come classificheresti il male in “Mouchette”? Ecco, se c’è una influenza che rivendico è Bernanos».
Torniamo a Borges. Nel testo su Tiresia citi una sua frase: “Noi tutti siamo il teatro, il pubblico, gli attori, la trama, le parole che udiamo”.
«Sì, è un concetto che aveva già espresso in vario modo Shakespeare. Il mondo è un palcoscenico, il teatro è una metafora della vita».
E il teatro è al centro del tuo ultimo Montalbano, “Il metodo Catalanotti”. Il teatro sembra tornare nella tua scrittura come il luogo in cui rimettere tutto insieme. Questo accade sia nel testo su Tiresia, dove tu confondi ulteriormente le carte assumendo un triplice ruolo, d’attore, di persona e personaggio, sia nell’ultimo Montalbano, il cui sfondo è ambientato nel mondo del teatro d’avanguardia. Come mai?
«È un po’ come quelle fiamme che cerchi in tutti i modi di tenere a bada, ma che all’improvviso, a sorpresa, fanno una gran vampata. Se tu guardi la mia bibliografia, ti rendi conto che tra il primo romanzo e il secondo sono passati otto anni. Sono otto anni di silenzio totale. E sono quelli in cui cerco di dare l’addio al teatro. Perché il teatro è la mia vita. Da quando ho cominciato a fare teatro non sono più stato in grado di scrivere un rigo, neppure una poesia, un miserabile sonetto di quattordici versi. Non ci riuscivo più, il teatro mi aveva completamente permeato. Sono vissuto per il teatro, ho cercato di liberarmene, e ora sembra essere venuto il tempo di tornarci con libertà».
Cosa ti piaceva di più del teatro: il rapporto con gli attori? O con il testo?
«Mi piaceva vedere una mia idea di personaggio trasformata in carne e ossa. L’ho provato sommamente quando ho messo in scena “Finale di partita” di Beckett, dove non c’è movimento se non nella parola, è un lavoro sulla parola ridotta all’essenziale. Per me la parola è l’uomo. Spesso quando scrivo romanzi e deve entrare un personaggio nuovo non lo descrivo, lo faccio parlare. Mi chiedo: questo come parla? Una volta individuato il suo modo di parlare, ricavo il suo aspetto fisico dalle parole. Se parla così, non può che avere dei baffetti piccolini alla Hitler e dev’essere anche un pochino claudicante, capito?».
Perfettamente. Mi colpisce che tu citi Beckett e la tua regia di “Finale di partita” perché quando ho letto “Conversazione su Tiresia” l’ho visto un po’ come “L’ultimo nastro di Krapp”, lo stesso rapporto con la memoria, la stessa volontà di raccogliere frammenti di memoria esplosa.
«È vero, ho fatto una sorta di “potage”».
Pensi che la vecchiaia sia anche umiliazione? Vedendo te non lo si penserebbe mai, anzi, si penserebbe il contrario.
«È il procedimento con cui se irrighi regolarmente un albero di arance lo preservi dalla morte, ecco, la mia irrigazione vitale è la memoria. Leonardo Sciascia diceva che da vecchi si è condannati alla presbiopia della memoria, cioè ti ricordi di un fatto che è accaduto quando avevi quattro anni e ti dimentichi di quello che hai mangiato il giorno prima. Ebbene, questa presbiopia è diventata vivissima in me. Per esempio, in questi ultimi giorni ho dialogato moltissimo con il mio nonno paterno. E dire che mi ero persino scordato come era fatto. Ora mi è tornato preciso, e mi è tornato anche il gioco che mi faceva fare. Poiché è morto quando io avevo appena compiuto tre anni, questa è una memoria di novant’anni fa. L’immagine è questa. Lui è malato, seduto su una poltrona accanto al letto, di fronte all’armoir con lo specchio. Io sono seduto sulle sue ginocchia, e lui mi dice: «Nenè, taliati ’u specchio». Io rispondo: «Nonno, ci sono». E lui, di colpo, mi butta fuori dallo specchio. «E ora?», chiede. «Non ci sono più, nonno», rispondo. E, di slancio, torno a riflettermi nello specchio. Questo gioco mi è tornato lucidissimo in questi giorni. Ecco, questa irrigazione continua mi tiene vivo, e produce ancora qualche frutto sull’albero».
Ti dispiace descrivermi la tua giornata?
«Posso dirti che per ora è buona. Comincia in bagno, e per tutto quello che sono i lavacri mattutini sono completamente autonomo. Basta che non mi spostino gli oggetti e riesco a farcela da solo. E finalmente respiro, perché mi devi credere, Roberto, ti dico la verità assoluta, io mi sono sempre odiato. Vedere questa faccia da imbecille ogni mattina allo specchio, essere costretto a guardarsi e a fare le smorfie, mi pesava. Io mi sono odiato da sempre, e ora finalmente non mi vedo più. Ah, che meraviglia! Sì, vado un po’ alla cieca, mi faccio qualche taglietto in più, pazienza. Quando sono vestito di tutto punto, me ne vengo qui, allo studio. Prima, quando ancora vedevo, mi mettevo immediatamente a lavorare al computer. Ora è un po’ diverso, resto un po’ da solo a riflettere. Valentina deve accudire alle sue faccende domestiche, poverina, e quindi arriva intorno alle dieci. In quell’ora in cui la aspetto rifletto su quello che dovrò dettarle. Quando arriva lavoriamo sino all’una meno dieci. Poi vado a mangiare, e, dopo, a riposarmi, un’abitudine che in questi ultimi anni è diventata obbligatoria. Mi alzo verso le tre e mezzo, e, nel pomeriggio, viene una ragazza, non sempre è la stessa, che mi fa da lettrice, o mi aiuta a fare le mie ricerche. Con lei lavoro sino alle sei e mezza, a quel punto stacco e sento un po’ di musica alla radio. Alle sette mi trasferisco nell’altro appartamento e con mia moglie guardiamo il telegiornale, poi ceniamo, e verso le undici e mezzo andiamo a letto. Questa è la mia giornata tipo. Ah, dimenticavo di dire che nel pomeriggio mi faccio anche leggere un po’ della posta che arriva. Se qualcuno mi manda un libro di poesie, dico alla ragazza di leggermene qualcuna, e se è il caso le dico di mettermelo da parte, oppure le dico che può toglierlo dai piedi. Aggiungo che nel pomeriggio sono continuamente interrotto da figlie, nipoti e pronipoti. Queste interruzioni non mi dispiacciono, perché io sono stato capace di scrivere al computer avendo due bambini di tre anni sotto il tavolo che mi davano pedate, urlavano e cantavano, e un altro che girettava per la stanza. Ecco, questo casino più che dispiacermi mi piace, perché ho sempre avuto bisogno di sentire la vita attorno a me, non ho mai capito il poeta che si chiude nella turris eburnea. Cosa ci stai a fare nella tomba? Così è accaduto che un giorno mia moglie entrasse nello studio e vedendo un macello di bambini, e io che continuavo tranquillo a scrivere, mi dicesse: «Tu non sei uno scrittore Andre’, sei un corrispondente di guerra!».
Nel testo su Tiresia accenni a certe discussioni avute con Pasolini. Di cosa si trattava?
«È una storia terribile. Ero stato incaricato di mettere in scena il suo “Pilade”. E siccome ero molto amico di Laura Betti, le chiesi di procurami un incontro con Pier Paolo per parlargli della mia idea di regia. Ci incontrammo e ne discutemmo, lui si trovò sostanzialmente d’accordo. Al terzo incontro lui mi chiede: «E gli attori chi sono?». Dico: «Cercherò di prendere dei ragazzi usciti dall’accademia, quelli che sono stati miei allievi». «Eh, no», fa lui. «Non mi fare un Pilade che parla perfettamente italiano». «Perché, tu come l’hai scritto?», gli chiedo. «In italiano», risponde. «Ma le voci educate non mi piacciono, prendi dei ragazzi di strada». «No», dico io, «con i ragazzi di strada questo testo non posso farlo». Insomma, ci accalorammo, tanto che io gli chiesi di rivederci, pensavo che questa cosa tra noi due andasse chiarita. Lui mi rispose che stava per fare un viaggio e che al ritorno mi avrebbe chiamato. Io andai a Bagnolo con mia moglie, e quando una sera accesi il televisore sentii la prima notizia del telegiornale: era l’assassinio di Pier Paolo. Fu tremendo. Dopo, mi rifiutai di mettere in scena Pilade. Non potevo più».
Come ti arriva, ora, il rumore di tutto quello che sta accadendo dal punto di vista politico in Italia?
«Purtroppo non mi arriva ovattato. Gradirei che mi arrivasse attutito, invece arriva molto forte. E soprattutto colpisce la mia impotenza, perché in altri tempi avrei scritto degli articoli, ora non posso più, non me la sento. È il motivo per cui intervengo raramente nelle trasmissioni televisive. Non vado mai in studio, non sopporto l’accavallarsi delle voci. Non vedendo, le urla mi confondono».
Per te che sei uno scrittore che da sempre dialoga con Pirandello - un Pirandello imparentato a Gogol - dovrebbe essere particolarmente interessante questo momento di finzioni, in cui la politica cerca di purificarsi ma sembra essere allo stesso tempo pura finzione. In Sicilia persino l’antimafia, per fortuna non tutta, è diventata finzione, e in campo nazionale la politica del nuovo spesso nasconde un forte tasso d’impostura. Come la vedi tu?
«Malissimo. Ho sempre pensato che la politica dovrebbe essere uno specchio lucidissimo. Sono stato abituato male, perché tutto si poteva dire degli uomini di Stato con i quali sono nato alla politica - si chiamavano Einaudi, De Gasperi, Togliatti, Sforza - ma pensando a loro oggi mi commuovo. Quando l’Italia nella persona di De Gasperi venne chiamata a Parigi a discolparsi davanti ai vincitori e a dire quale sarebbero stati i propositi dell’Italia democratica, lui sapeva che si sarebbe trovato in quel teatro, da sconfitto, davanti ad americani, inglesi, russi, francesi, neozelandesi. La sera prima, nella sua stanza - questo lo ha raccontato Vittorio Gorresio - c’erano con lui Togliatti, Nenni, Sforza, Parri, tutti a verificare il documento che avrebbe letto e a dire «senti, che dici?, sostituiamo questa parola, scriviamo così», in un clima cioè di totale collaborazione. Ecco, questa è l’Italia. Pensa che al momento di andare sul palco, Sforza disse a De Gasperi «Alcide, cambiati la giacca, questa è un po’ lisa», e lui rispose «Ma io non ne ho altre». Allora Sforza gli si mise accanto, vide che erano su per giù della stessa taglia, si levò la giacca, e gliela porse. dicendo: «Mettiti la mia che è più nuova». Questa è l’Italia che ho amato. Quella di oggi, con questi personaggi, mi fa oscillare tra l’orrore e lo spavento».
Ti faccio l’ultima domanda da Tiresia. Se tu dovessi avvertire gli italiani di un pericolo futuro, se dovessi predire il rischio più grosso che attraversa l’Italia come comunità, quale diresti?
«Quello economico, con i suoi riflessi sul sociale. La bilancia è sensibilissima, basta una mezza parola per fare precipitare la situazione. Lo spread che prima si manteneva sino a 150 è salito sino a duecento appena uno di questi due proconsoli ha detto che bisogna ritrattare i contratti con l’Europa. Io temo che questi individui sono capaci nel giro di ventiquattro ore di farci inghiottire dal mercato, di ridurci come Don Falcuccio, con una mano davanti e una di dietro. E provo una gran pena. Mi sono occupato per tutta la vita di politica, da cittadino, e lasciare un’Italia così ai miei pronipoti mi fa pensare di aver fallito tutto».