Da Zagabria ad Astana,  da Varsavia a Budapest, la lirica investe sugli autori nazionali. Riscopre la tradizione. Per esaltare il populismo di oggi 

Uno spettro si aggira per i teatri d’opera: lo spettro del sovranismo. Se ne sarà accorto chi ha visto l’ “Attila” scaligero il 7 dicembre scorso, con tutti quegli applausi che hanno accolto il Presidente della Repubblica, al tripudio seguito all’esecuzione dell’inno di Mameli e allo sventolio dei tricolori in alcune scene dello spettacolo. Tanto che qualcuno, fra il pubblico, ironizzava: «Stai a vedere che al momento dell’incontro fra papa Leone Magno e Attila sul Mincio vediamo impersonati i protagonisti da controfigure di Mattarella e Salvini, col ministro degli Interni leghista nelle vesti del condottiero unno».

Opera e populismo, dunque. Gli intellettuali, fino ad oggi, ci hanno scherzato su. Il semiologo Paolo Fabbri, ad esempio, collaboratore di Umberto Eco, ha ironizzato: «I sovranisti odierni fino ad ora mi sembrano etimologicamente soprani, cantanti d’opera buffa. È un sinonimo di nazionalisti che sono contro - migranti, europei, ecc. Preferisco il contrario cioè i patrioti che sono per e non contro».

Ma che ci sia un ritorno di un acceso, irrazionale patriottismo sui palcoscenici teatrali lo fa intendere a chiare lettere la rivista “Classic voice”, che intitola proprio “L’Opera sovranista” una sua inchiesta.
Se ne desume che è soprattutto nei paesi dell’Est europeo che sta crescendo la tendenza a riscoprire autori nazionali. In questo senso va interpretata la presenza di Viktor Orbán alla prima rappresentazione di “Fin de partie” di György Kurtág lo scorso 15 novembre alla Scala. Il primo ministro ungherese, grande artefice della rinascita del populismo in Europa, sembrava completamente soddisfatto del successo di un connazionale nella storica sala del Piermarini. Non a caso, oltre a difendere strenuamente i confini nazionali, si è distinto per la sua politica riguardante i teatri, che ha significativamente definito «templi della cultura nazionale». Una considerazione che si è concretizzata negli eccezionali lavori di ristrutturazione e ampliamento dell’Opera di stato ungherese e  lo scorso autunno in una dispendiosissima tournée americana con 350 fra cantanti, danzatori e musicisti. In cartellone “Il castello del principe Barbablù” di Bartok e, significativamente, “Bank ban” di Ferenc Erkel, mediocre autore  della musica dell’inno nazionale adottato dall’Ungheria nel 1844 (un po’ come se da noi si riscoprisse “Ö mego pe forsa”, opera buffa in dialetto genovese di Michele Novaro, ovvero l’autore delle musiche dell’”Inno di Mameli”).

Similmente in Croazia la “presidentessa” Kolinda Grabar-Kitarovic ha promosso al Teatro croato di Zagabria un progetto di riscoperta delle opere nazionali definendolo «una missione artistica». Per questo sono in corso di programmazione titoli come “Nikola Subic Zrinski”, opera del 1876 che celebra l’eroica sconfitta dei croati contro i turchi, successivamente assurta a simbolo di un revanscismo nei confronti della monarchia asburgica. L’autore della partitura è Ivan Zajc, partecipe del Movimento illirico che lottava per la riunificazione delle cinque terre croate, che ai suoi tempi erano sotto la sovranità di altrettanti stati, e la liberazione della Croazia dall’Impero austro-ungarico.

Atteggiamenti similmente patriottici in Polonia nell’opera “Manru” in cartellone nella stagione dell’Opera di stato polacca, di Jan Paderewski, celebre pianista nel cui repertorio troneggiava il connazionale Fryderyk Chopin. Paderewski, che fu anche primo ministro dello stato polacco, con delega agli affari esteri, in “Manru” narra la storia di un gitano che seduce un’innocente ragazza del villaggio, che poi, sentendosi umiliata dinanzi ai suoi compaesani, si suiciderà. Nel finale il fedigrafo verrà punito da un rivale dello stesso clan della ragazza. La morale della storia è quindi: la purezza dei costumi locali deve essere salvaguardata dalla corruzione  di cui è portatore il forestiero.

Anche nella ex Urss, quanto ad atteggiamenti sovranisti non scherzano. L’ideale di un “uomo di sentimenti indubitabilmente nazionali” alla guida di un’orchestra ha sempre esercitato un grande appeal, fin dai tempi dell’Unione sovietica, quando una bacchetta come quella di Evgenij Mravinskij diresse per cinquant’anni la Filarmonica Leningrado, assurgendo con questo binomio artistico a simbolo di un’intera nazione. Paragonabile atteggiamento viene esibito nell’amicizia pubblica fra il presidente Putin e Valery Gergiev, uno dei maggiori direttori d’orchestra in attività. Non a caso Arthur Lubow sul “New York Times” ha definito Gergiev “il lealista”. Solo lui, nel 2009, davanti a un pubblico in lacrime di gente comune e soldati russi in piedi sui carri armati, avrebbe potuto dirigere un concerto a Tskhinvali, la capitale devastata dell’Ossezia del sud in Georgia, e dichiarare: «Se non fosse stato per l’aiuto dell’esercito russo qui ci sarebbero migliaia e migliaia di vittime. Sono molto grato come osseta al mio grande paese, la Russia, per questo aiuto». 

Gergiev nell’occasione scelse di eseguire la sinfonia “Leningrado” di Sciostakovic, composta durante l’assedio nazista e diventata un emblema mondiale della resistenza del suo popolo durante i giorni più bui della Seconda guerra mondiale.Proprio il “New York Times” ha notato come nel caso russo c’è senza dubbio una volontà da parte del governo di comunicare, attraverso il rispetto per una forma tipica della cultura tradizionale più solida e storicamente nobile e positiva, un’immagine diversa da quella del rivale americano, nel quale le star del pop salgono sui palchi dei politici, in genere dei democratici, durante le campagne elettorali.

A quanto pare per i governi autoritari investire sulla musica classica è un modo per affermare le proprie ambizioni globali. Per fare un esempio fra i diversi possibili, un monumentale e costosissimo teatro d’opera è stato inaugurato nel 2013 ad Astana, capitale del Kazakistan. Nonostante la diffusione della lirica sia molto diminuita nell’ultimo mezzo secolo e fra le generazioni più giovani una familiarità con il repertorio sia rara anche ad alti livelli di preparazione culturale, dal punto di vista dell’autorappresentazione del potere la musica classica ha ancora oggi un’efficacia enorme.

E in Italia qual è la situazione del sovranismo nell’opera? Più sfumata,nonostante il fatto che il “Va pensiero sull’ali dorate”, uno dei cori più noti della storia preso dal “Nabucco” di Verdi, sia un po’ l’inno del partito di Bossi e Salvini. Perché la musica del Bussetano a volte è strumentalizzata dall’amore patrio nel senso nazionale, a volte da quello locale per una ipotetica “casa padana”.
Storicamente, non è la prima volta che il nazionalismo italiano prova a riscrivere la storia della musica. Non è certamente un caso se la prima epoca d’oro di revisionismo in questa materia si ebbe con il fascismo. E in molti casi le riletture iniziate o promosse in Italia si sono successivamente affermate anche a livello internazionale. Questa fu una delle ragioni per cui la musica strumentale italiana dell’epoca di Corelli e Vivaldi beneficiò di un ritorno di interesse dettato fra l’altro dal desiderio di avere in epoca barocca dei grandi nomi italiani da contrapporre a quelli di Bach ed Händel.

Oggi, al sovranismo può far pensare un libro del direttore d’orchestra Riccardo Muti dal significativo titolo “Verdi, l’italiano. Ovvero, in musica, le nostre radici” (Rizzoli, a cura di Armando Torno): «Ho voluto dare a questo libro questo titolo non tanto per l’aspetto patriottico che traspare in tante sue opere, come abbiamo visto, quanto invece per l’italianità, in senso lato, di cui esse sono intrise», scrive l’autore: «Nelle opere di Verdi, infatti, c’è la vita e la riflessione sulla morte, però si respira tutto il nostro carattere italiano, dando a questa parola il significato più vasto possibile: traspaiono il desiderio, la passione, l’amore, il silenzio, la delusione, talvolta anche l’insolenza, l’aggressività o l’intolleranza, che comunque fanno parte della nostra cultura, della nostra natura». Perché «Verdi è l’artista che meglio è riuscito a esprimere il nostro temperamento. Non si può generalizzare, perché ovviamente l’Italia è fatta di tanti diversi italiani, però c’è un modo di essere italico che Verdi rappresenta in maniera valida e in questo senso mi piace parlare di “italianità verdiana”».

Di tutt’altre idee, accompagnate da riflessioni su una società più aperta, è Daniel Barenboim, fino al 2015 direttore musicale della Scala - fra l’altro, ironicamente, nonostante non sia italiano ma argentino-israeliano, ha lasciato del Requiem di Verdi una esecuzione di tutto rispetto. L’osservazione maliziosa fa tornare in mente al maestro alcune polemiche che infiammarono i giorni del suo incarico milanese. A Barenboim, interprete di riferimento per la musica di Beethoven o Wagner, veniva rimproverato di non trovarsi a suo agio nell’affrontare l’opera italiana. [[ge:espressoarticle:eol2:2167414:1.38120:article:https://espresso.repubblica.it/googlenews/2011/11/28/news/barenboim-mozart-la-politica-e-io-1.38120]]In un’intervista a L’Espresso sottolineava come «l’italianità è un concetto molto più complesso di quel che di solito si intende. Cos’è l’italianità? È Dante, Boccaccio, Pirandello, Verdi o Rossini? Cinque universi diversi. Hanno qualche cosa in comune? Sì. Ma questo a mio modo di vedere è molto meno interessante di ciò che li differenzia. E la teutonicità nella musica cos’è? È Brahms, Wagner, Beethoven o Schumann? Brahms e Wagner artisticamente parlando, oltre che umanamente, erano quasi nemici, a livello stilistico andavano in due direzioni diverse. Quando si parla dell’italianità, da voi, a volte si rasenta la superficialità. Verdi è molto più grande di questo concetto. Nel suo studio aveva le partiture dei Quartetti di Beethoven. Solo dopo averle assimilate osò scrivere il suo». Eppure Barenboim conviene che ci siano elementi nazionalistici di tipo culturale: «Il problema comincia quando questo nazionalismo culturale diventa politico. Quando i tedeschi dicono: “Per comprendere la musica tedesca bisogna capire questo elemento teutonico intrinseco”, hanno ragione. Ma quando negli anni Trenta alcuni di loro affermavano: “Soltanto un tedesco può capire questa musica”, scadevano nel più volgare dei fascismi».