Come si raccontano oggi  la morte e i conflitti? La scrittrice che ha fatto rivivere il mito di Gerda Taro e Robert Capa riflette sul mestiere di fotoreporter


Sono due anni che “La ragazza con la Leica” mi ha aperto le porte sul mondo reale della fotografia che conoscevo solo attraverso mostre, libri, archivi. Ho tenuto in mano vecchie Leica ereditate da padri fotografi, ho ascoltato i racconti di Uliano Lucas e degli amici intimi di Mario Dondero. Tutto questo mi ha restituito un passato epico che sembrava sepolto dal fiume di immagini che ciascuno ormai è in grado di produrre in ogni istante e ogni luogo. Ma poi ho incontrato alcuni tra coloro che seguitano a fare i fotografi sul campo e la distanza tra quel tempo e l’oggi mi è parsa meno radicale.

La mostra “Di fronte alla guerra” (al Forma Meravigli di Milano fino al 20 ottobre) è un’occasione per riflettere sulle costanti e le trasformazioni del mestiere del fotoreporter. L’allestimento a cura di Renata Ferri mescola sapientemente il lavoro dei due ultimi vincitori del Premio Ponchielli, «La battaglia di Mosul» di Emanuele Satolli e «Life, Still» di Alessio Romenzi. Conoscevo le foto di Romenzi. Gli scatti di Satolli invece li vedevo per la prima volta: soldati in azione o a riposo, civili in fuga tra le macerie, un militante dell’Isis catturato, gli occhi sgranati dal terrore della morte. Aderente alla lezione della fotografia di guerra classica, quel racconto mi ha rievocato le foto che mi sono diventate familiari.
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La dinamicità drammatica dell’azione e la sofferenza dei civili sono entrate nel nostro immaginario con la guerra civile spagnola, la prima «guerra mediatica», la prima a introdurre in Occidente i bombardamenti su obiettivi non militari. Lo shock che ispirò Guernica di Picasso riecheggia in una didascalia coeva – siamo nel 1937 – apposta da Gerda Taro sul taccuino con gli scatti di Madrid desertificata dalle bombe. “Surrealisme”. Una sola parola. E i grandi paesaggi di macerie realizzati da Romenzi traslucono di un iperrealismo che sembra voler recuperare proprio lo stupore di quella didascalia.

Dalla «prova generale della guerra totale» combattuta in Spagna sono cambiate tecnologie e società mediatica, ma non il modello della guerra ripetuto in un crescendo incessante: sempre più foriera di morte per i civili, distruttiva, pericolosa per chi si avventura a raccontarla.

Il miliziano colpito a morte di Robert Capa o la nuda, urlante bambina vietnamita di Nick Ut riuscirono a infrangere l’indifferenza o la fugace compassione perché una parte cospicua dell’opinione pubblica era disposta a reagire a quelle immagini. Ma la speranza ingenua che le foto abbiano il potere di mutare da sole il corso della storia, l’abbiamo abbandonata nel secolo passato. La forza di una foto, d’altro canto, si misura con la forza della collettività - la polis - che se ne fa carico. È un fatto politico che non s’innesca attraverso una competizione mimetica tra la realtà brutale e la fotografia che insegue l’effetto shock accentuando la drammaticità spettacolare e la sofferenza delle vittime. Scelte di questo tipo hanno spesso assicurato visibilità e fama ai fotografi, ma non hanno quasi mai raggiunto lo scopo di sensibilizzare chi guarda il dolore degli altri.
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Può darsi che abbiano anzi rafforzato la percezione che il teatro della crudeltà sia sempre altrove, le vittime un’umanità radicalmente altra, salvo per l’impotenza che unisce il soggetto e lo spettatore. Forse per questo un fotografo come Satolli ha preferito tornare sulla via maestra dove tutte le guerre tragicamente si somigliano. E se i suoi precursori - ai tempi della guerra di Spagna - erano refrattari a mostrare la violenza nuda e cruda, questo non avveniva solo perché sarebbe stato censurabile, ma perché le loro foto erano inviti alla solidarietà basata sul riconoscimento dell’altro come soggetto paritario.

Quei civili non venivano mai esibiti come pure vittime, esseri umani doppiamente oggetto: della violenza e della raffigurazione fotografica. Persino gli scatti dedicati nel ’45 dall’ebreo Capa ai prigionieri di guerra tedeschi (alcuni dei quali non devono aver fatto una bella fine) suscitano l’ambiguo sentimento della pietà dei vinti che non potrebbe sorgere se quei soldati umiliati e sconfitti raffigurassero il nemico a cui nulla ci accomuna. Così, in tempi recenti, dopo anni di terrificanti testimonianze dalla Siria e dall’Iraq, è stata l’immagine di un bambino riverso come dormiente su una spiaggia a scatenare una reazione planetaria. E questo proprio perché lo scatto della fotografa turca Nilüfer Demir riesce a trasmettere l’idea, il sentimento che quel piccolo corpo esanime vestito di rosso e azzurro sarebbe potuto essere quello di un qualsiasi nostro bambino. Una foto che avvicina: è stato questo a renderla sconvolgente.
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Alla commozione suscitata dalla foto di Alan Kurdi nel 2015, solo il Canada diede la risposta di un’ulteriore apertura verso i rifugiati, mai revocata. In Europa le immagini ripetitive dei corpi annegati nel Mare Nostrum o dei naufraghi ammassati sui gommoni hanno invece a poco a poco rafforzato una reazione che, esaminando nel 2003 il nostro sguardo “Davanti al dolore degli altri”, Susan Sontag non aveva ancora incontrato: non l’indifferenza cinica e nemmeno la paura tenuta a bada, bensì il ribaltarsi della percezione di vicinanza in una chiusura ostile virulenta. Oggi le navi delle Ong simboleggiano gli avamposti galleggianti di un conflitto, proprio perché la conflittualità politica tocca il principio stesso dei diritti umani. La frontiera è davanti alle nostre coste ma anche nelle baraccopoli delle campagne: è ovunque dove «vite di scarto» abitano uno spazio parallelo rispetto alla quotidianità di chi gode di un relativo benessere, di pace e di diritti.

Anche questa differenza si riflette nelle immagini. Le foto toccanti dei bambini africani sulla Mare Jonio, ha osservato la scrittrice Igiaba Scego, si distinguono da quelle dei loro coetanei bianchi di cui i media tradizionali sono tenuti a oscurare gli occhi. I social, invece, traboccano di foto a viso aperto di minori, basta che siano i genitori a pubblicarli. Vale a dire che la differenza tra un cittadino occidentale e un profugo o migrante si traduce anche nel diritto a gestire l’immagine propria e dei propri bambini, bambini che di conseguenza risultano esclusivamente «nostri».

Lo spazio comune, lo spazio della polis, comincia là dove finisce la nostra privacy. Questo favorisce che quello spazio appaia intrinsecamente minaccioso. Perciò diventa un’immagine politica persino la bambina sorridente che abbraccia la scrittrice Caterina Bonvicini a bordo della Mare Jonio. La foto di Francesco Bellina ci chiede se vogliamo «restare umani» o semplicemente assecondare l’istinto di protezione che, secondo gli etologi, si attiva nei mammiferi alla vista di un cucciolo, fosse anche di un’altra specie, come i gattini o i lupacchiotti che sui social suscitano tanta tenerezza.
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L’incontro con gli occhi della bambina ha la facoltà di interrogarci se ci sentiamo ancora parte di un mondo che necessita della nostra cura e partecipazione. Le nostre case, le «tiepide case» di cui parlava Primo Levi, sono diventate il modello simbolico dello spazio che abitiamo, anche quando postiamo un selfie con gli amici sulla spiaggia. Siamo noi i proprietari dell’immagine, noi a decidere chi e cosa includere o escludere nei nostri scatti. Per questo «fotografia sociale» è diventato quasi sinonimo di immagini dedicate ai senzatetto, ai carcerati, a tutti coloro che vivono in una condizione di marginalità non protetta dai sacri confini di una casa.

Mohamed Keita l’ho conosciuto a Venezia grazie a «Rothko in Lampedusa», la mostra aperta fino al 24 novembre alla Fondazione Ugo e Olga Levi in cui l’Unhcr ha voluto affiancare delle opere di giovani rifugiati ad artisti affermati come Ai Weiwei, Christian Boltanski, Richard Mosse e Adel Abdessemed, tutti legati al tema delle fughe e delle migrazioni. A quattordici anni Mohamed Keita è scappato da solo dalla Costa d’Avorio, dove la guerra civile gli ha ucciso la famiglia, per approdare a Roma dopo un viaggio di tre anni. È stato il centro per minori “Civico Zero” a fornirgli le basi fotografiche e una macchina usa e getta con cui ha cominciato a riprendere le persone che dormivano vicino a lui alla stazione Termini.

Dato che anche i «miei» fotografi, Gerda, Capa e amici, lo erano diventati per emanciparsi della condizione di profughi, è stato emozionante sentirlo raccontare quanto avrebbe desiderato avere una fotocamera già mentre attraversava i deserti e come una foto gli consenta di catturare un senso puntuale di appartenenza e conservarne la memoria. I lavori che Keita ha realizzato a soli 26 anni gli sono già valsi diversi premi e una mostra accanto a Paolo Pellegrin curata da Marco Delogu. Mohamed Keita fotografa quasi solo altri esseri umani colti per strada con un occhio ironico ed empatico. Stranieri ed emarginati, ma anche turisti, suore, tipi strani, gente del quartiere. Ogni figura umana è diversa e speciale, ogni differenza tra «noi» e gli «altri» risulta così azzerata. Nelle foto italiane di Mohamed Keita lo spazio che abitiamo torna a essere di tutti.

Credo di ravvisare un movimento opposto ma convergente nella serie «Life, still» di Alessio Romenzi. Foto nate con la lentezza e l’accurato studio dell’esposizione che esige lo strumento del banco ottico. In alcune si scorgono, piccolissime, delle figure umane, nelle altre sono difficili da scoprire le tracce di vita a cui allude il titolo. Cosa trasmettono quei paesaggi in rovina dei teatri di guerra dove Romenzi ha scattato i reportage con cui si è guadagnato due premi World Press Photo? Parlano del bisogno di tornare e di prendersi del tempo, il tempo per meditare sulla permanenza dell’accaduto, il tempo che la fotografia di guerra non consente. Parlano di un desiderio di abbracciare le rovine con lo sguardo, come se ormai appartenessero anche a chi è stato in Siria, Iraq e Libia per fare il suo lavoro. Parlano di un lutto e di una flebile speranza di rinascita a cui partecipa anche chi, venuto da lontano, non può che contemplare quei paesaggi da una distanza rispettosa.